Cari amici, permettetemi di rispondere alla “provocazione” dell’amico Luigi Cavallaro che, ricordando la presa di posizione di Marx, nel 1848, a favore del libero scambio in quanto elimina i residui di feudalesimo, suggerisce che forse il popolo di Seattle, combattendo la globalizzazione, non si avvicina agli ideali che si propone; anzi. Non intervengo sulle contingenti ragioni di Marx: non è questo il luogo e, inoltre (provocazione per provocazione), non raccomando a nessuno di prendere l’abitudine di giurare in verba magistri. D’altra parte, l’idea della “funzione storica” del capitale fa parte integrante del pensiero marxiano in generale e non solo sulla specifica questione di cui parlava nel ’48; e tuttavia, se si sottolinea solo questo aspetto, si finisce col credere che Marx possa non condividere quella critica alle “forze morali” (l’egoismo, la motivazione al profitto ecc.) che giustamente Cavallaro attribuisce (anche) al popolo di Seattle.
Ancora, osservare che queste forze sono “quelle che permettono attualmente agli individui di cooperare senza che debbano per forza “conoscersi o amarsi”” (Cavallaro), significa adoperare il verbo “cooperare”, che anche Marx usava tanto spesso nelle sue analisi per definire il ruolo del capitale, in riferimento a una situazione storica ben diversa da quella in cui viveva Marx e dunque con diverse implicazioni. Marx, infatti, lo usava in un periodo in cui la tecnologia messa in atto dal capitale costituiva il rapporto tra gli individui principale (“necessario”, diceva lui); allora non era visibile alcuna possibilità di estrinsecazione di una soggettività collettiva alternativa e consapevole di sé, non era visibile, se vogliamo, alcuna autonomia (relativa, in senso althusseriano) del politico. Oggi l’autonomia del politico è, direi, una realtà: in quanto autonomia del sociale, del culturale, insomma in quanto autonomia dal basso, di movimento.
Questa soggettività culturale alternativa si è incarnata in processi economici alternativi (commercio equo e solidale, banche etiche ecc.): dico “processi” in quanto intendo riconoscere l’importanza dei fattori tempo e spazio (entrambi da declinare al plurale) come fondamentali per la realizzazione di una società migliore, consapevole dei tempi lunghi degli assestamenti, proprio in quanto fondati dal basso e non resi obbligatori da un’autorità centrale, e bisognosi, semmai, di momenti di coordinamento (da parte di tutti e non di otto “Grandi”). Oggi la cooperazione, da intendersi non più immediatamente tecnico-scientifica ma anche e soprattutto interculturale, si può ottenere non più “solo”, come invece sostiene Cavallaro, attraverso un’autorità centrale, ma anche, e in primo luogo, attraverso l’apertura di frontiere (globalizzazione culturale del diritto di circolare da parte delle persone, anziché dei capitali); attraverso l’economia del dialogo rispettosa dei popoli e delle risorse e la formazione di eserciti di pace (che invadano in modo nonviolento le nazioni in guerra, secondo le iniziative tentate, ad esempio, da “Beati i costruttori di pace” durante la guerra in Bosnia e quella nel Kossovo), anziché l’imposizione di modelli di sviluppo nostri e dei nostri eserciti armati che fanno finire le guerre facendo essi stessi guerre; attraverso l’abbassamento generale dei bisogni dei “grandi” paesi che consumano i tre quarti delle risorse mondiali, anziché l’inglobamento degli altri nel nostro mercato e così via.
Quindi, anche accettando la teoria della storia (qui, dato che l’oggetto è considerato nella sua struttura sincronica, basterebbe dire l’analisi) del nostro amico Marx, mi preme far notare che, dal 1848, è trascorso tempo, cioè che si è almeno parzialmente realizzata la condizione a cui, come Cavallaro stesso dice, Marx allora pensava: cioè “che molto tempo deve ancora trascorrere prima che gli individui imparino a scambiare i loro lavori in modo diverso dallo scambio delle merci”. Gli individui lo vanno imparando, sia nell’ambito economico in senso stretto sia in quello culturale, dove l’antropologia e la ricerca storica ci hanno abituato alle nozioni di “economia del dono” (le società cosiddette primitive) ed “economie in cui non domina il mercato” (i Greci, ad esempio). Quanto alla convinzione marxiana secondo cui “la genesi di questa nuova forma delle relazioni sociali presuppone comunque l’appropriazione del patrimonio di conoscenze che già ora è disponibile” (Cavallaro), essa va a mio parere riarticolata a partire dal presupposto che di “patrimonio delle conoscenze disponibile” si deve parlare non più nel senso tecno-scientifico delle società industriali, ma in quello antropologico di culture che abitano il pianeta Terra: bisogna smettere, io credo, di pensare il capitale come l’unico vettore di socialità; nuove relazioni sociali potranno nascere, piuttosto, quando l’occidente dei “Grandi” permetterà che, con pari dignità, circoli e si trasmetta il sapere di tutti i popoli dai quali, almeno in fatto di rapporti comunitari, ha molto da imparare.