In Francia si sarebbero chiamati Cahiers , come quelli del Valéry così amato da chi annota, in un appunto del 23 ottobre 86: «L’acutezza di Valéry nel toccare certi problemi non è stata forse raggiunta da nessuno in questo secolo non fortunato». E acuta, coltivata, inquieta, tramata su uno spessore di pensiero che non si disgiunge mai dall’«educazione» della parola, è la scrittura dei diari di Luciano Anceschi, che «il verri», la sua rivista fondata nel ’56, ospita ora in seconda puntata per celebrare i propri cinquant’anni di vita. Si completa così il progetto, promosso da Milli Graffi e sostenuto dal comitato di redazione, di rendere pubblici i quaderni che il «professore» redigeva segretamente (ma non senza farne parola agli amici più cari), scegliendo, tra una mole di appunti che risalgono al lontano 1948, quelli degli ultimi dieci anni (1986-1990 nel numero 31 della rivista, 1993-1995 nel numero 32 ora in uscita, sempre con la revisione attenta di Tommaso Lisa). Accennavo a Valéry, perché è a un orizzonte europeo che occorre guardare, e ai grandi modelli della razionalità e del metodo, per trovare parentele per una riflessione che si colloca tra estetica, letteratura, filosofia, riflessione meditata e militanza attiva. E se accanto a Valéry è bene posizionare subito, in una ideale diramazione araldica, il Montaigne degli Essais («Montaigne. Posso dire che mi pare un modello supremo? E per di più un modello che amo?», Vetto, 8 settembre 1986), il dialogo si estende poi ad altri estensori di note intime e speculazioni teoriche, dal Leopardi dello Zibaldone al Pascal delle Pensées , ma anche dal meno prevedibile Flaubert dei Carnets al Wittgenstein diarista (sino alla sorpresa del Flaiano del Diario notturno o delle lettere della Cvetaeva). Accanto ai «diaristi» si delinea, di nota in nota, una cultura a tutto tondo che spazia da Epicuro a Spinoza, da Campanella al Nietzsche della Gaia Scienza e degli Appunti filosofici , sempre con un’attenzione orientata verso il sapere «dei limiti», si tratti di Bacone o dell’Husserl delle Meditazioni cartesiane , del Merleau-Ponty del Visibile e l’invisibile o di Baudelaire, Benn, Krauss con i suoi corrosivi aforismi, particolarmente citati negli appunti degli ultimi anni. Proprio sull’aforisma conviene soffermarsi. È rivelatrice l’attenzione che Anceschi gli dedica, tra adesione e ritrosia: perché l’aforisma consente sì la sintesi efficace, basandosi su meccanismi linguistici che puntano a una «intensa», «compendiosa» brevità non disgiunta da ironia, ma allo stesso tempo impedisce, per Anceschi, l’ascolto pausato di sé, non ammette lo stile di soste e rimandi che è sostanza del suo scrivere come del suo indagare. «Non avrò mai il dono stringente dell’aforisma, e mi dispiace», annota comunque il 15 agosto ’93, ammettendo la complessità e difficoltà di praticare quel genere, ma anche il fascino di scrivere trascinati «dal breve frammento, dalle moralità, dal breve saggio che racchiude le potenzialità di un saggio, e trova incanti – confessa tra il 18 e 19 agosto – che un tempo … sfuggivano». Non a caso le riflessioni sull’aforisma si infittiscono proprio negli appunti del ’93-’95, assieme alla percezione del tempo che viene meno e si vorrebbe controllare, fermandolo nelle forme di un «diario intimo» destinato a lettura non solo privata (ne fanno fede i tanti incipit che valgono da istruzioni per l’uso: «chi eventualmente leggerà queste pagine …», «Le mie considerazioni vanno lette globalmente le une connesse alle altre…»; e non servono a contraddire la destinazione al «lettore» certe caute, quasi scaramantiche avvertenze: «Nessuno probabilmente leggerà mai le pagine di questo diario, del resto tenuto per riordinare le esperienze vissute, e ricordare me a me stesso. Ma dico, intanto, a me stesso che la lettura e la rilettura dello scritto vanno fatte non solo con discrezione »). Uno «strumento medico» del pensiero è il diario. Non esiste definizione migliore di quella scelta da Anceschi per illustrare il suo equilibrarsi, di pagina in pagina, tra acutezza (barocca, in senso pieno e positivo, non senza punte acuminate di wit ) e malattia del vivere (la depressione, la solitudine spinta sino all’ horror vacui , l’insonnia, la tentazione affiorante e rimossa del suicidio). Sono i tratti di un umanesimo criticamente disilluso: quello di chi assiste, mentre scorrono gli anni e incombono i disagi della vecchiaia, all’involgarirsi del clima politico e culturale («Tutto appare sporcato» è la perentoria diagnosi affidata a un appunto del 17-18 marzo ’86), e rivendica in controtendenza i diritti dell’utopia contro le derive di un presente che ospita, tra diktat imperiosi, «un gioco molto celato dell’effimero e del superficiale» (Bologna, 27 marzo ’86). Di fronte alla rozzezza e all’incultura, i diari diventano severi cahiers de doléances , atti d’accusa contro la scrittura che «simula» un pensiero irrigidito in luoghi comuni, nel «miserevole paesaggio morale» di tempi segnati dalla «spavalderia della corruzione», in un paese «privato della critica e delle misure», ove trionfano «maneggioni» di varia estrazione. Teocon petulanti e retrivi o euforici parolai, praticanti del vaniloquio o oracolari cultori di «lampeggiamenti immaginosi» (leggasi Bloom e il suo canone), esaltatori della Bellezza in un gioco solo di «dimissioni» e «propaganda» incolta e «irrilevante», non sono proprio risparmiati dal sarcasmo feroce del grande vecchio. Né è risparmiata la «tetra e orribile comicità» dei trafficanti con «minutaglia di vedute», la pratica dell’«indifferenza distratta», nell’indebolirsi della funzione e del rigore critico, in un’Italia che «ama i suoi dogmi» («Italia che tristezza!», è lo sfogo del 19 febbraio ’93). Compaiono nomi e dati, in elenco corposo, dall’Ugo Spirito sorpreso, con corrosiva ironia, in solitario colloquio col «Pensiero», alle ipervalutazioni che sfiorano il comico (Busi e Dante appaiati, l’ultimo Pasolini incensato negli anni del suo «confuso parlottio»), ai corpo a corpo, specie con Cioran («il carissimo nemico» dalle «luttuose profezie»), alle riserve per compagni di percorso sorpresi in difetto (un Manganelli bizzarro, un Sereni che compie scelte editoriali censurabili, un Arbasino talvolta «illeggibile», un Porta euforico e manageriale al ritorno da un viaggio statunitense, un Malerba dallo spessore attenuato…). Ma sono soprattutto il pensiero dogmatico o lo scetticismo «imbecille» a indignare chi ha coltivato per decenni il dialogo intellettuale, il confronto di idee, la ricerca disinteressata: «Detesto tutto ciò profondamente, e la motivazione sta nel mio lungo lavoro». Il maître à penser rivendica il suo ruolo: lui nemico degli assolutismi, lui che avrebbe voluto essere presente quando l’uomo inventò dio, confessa tutto il disagio per una cultura che vede tramontare la civiltà della conversazione e del confronto e non lascia spazio al pensiero «che si costruisce in atto e in atto può decostruirsi». Che è quanto dire un’abdicazione al rigore e all’esercizio paziente di un metodo, quel metodo continuamente rivendicato nei diari, insieme con la ricerca di una sistematicità «sempre in formazione e sempre nuova». Ne è prova la scrittura elegante e sorvegliata, ricca di spessore e attriti, in un intercalare ritmico tra riflessione, ricordo, cronaca del quotidiano, affetti e umori (le ansie per la salute dell’amatissima Maria, la casa di Bologna, gli oggetti tra cui trova conforto, e Vetto, il rifugio delle meditazioni e dell’auscultazione di sé). È una prosa «nervosa e inquieta», mai sovratonale, «dislocata» verso la scoperta di territori inesplorati, pervasa da stupori molto trattenuti, molto depurati, sintesi lapidarie, ironia. Da questa parola libera e liberata si viene presi, anche dove si impunta sulle ripetizioni, si lascia scrivere e riscrivere per accostarsi gradualmente all’esattezza della pronuncia (esemplari le note sul Balestrini dei Furiosi , diligentemente esibite nelle ultime pagine del diario nel loro percussivo iterarsi). O dove si apre alle contraddizioni, seguendo «i variabili – anzi variabilissimi – tratti dell’umore» (Vetto, 13 settembre 1990), che obbligano a segnare gli «eccetera» o i punti interrogativi anche a fianco delle più risolute certezze. Come quando il «professore» si sorprende stizzito con sé, con un suo un po’ impettito parlare, e si fa il verso: «Mi pare veramente che il nostro paese in questo momento si sia privato di inquietudini, di problematicità, di movimento. O sono solo “vecchio”?». Vecchio, Anceschi, non lo è stato mai. Come non lo è chi avverte, vitale, la spinta della curiosità, ed è attratto dai «germi», i «momenti iniziali» in cui si manifesta una personalità nuova e decide di sé (così il Leopardi delle prime pagine dello Zibaldone , così il Sanguineti di Laborintus …). Non è vecchio chi considera il dubbio un concetto «semanticamente» ricchissimo, e converte la propria inquietudine interiore alla «leggerezza» da conquistare sul campo «a caro prezzo», tra l’urto delle cose, come «forma accettabile e gradevole di profondità».