Sintesi della mozione “Essere comunisti”

Partito della Rifondazione Comunista – VI Congresso

È più che mai necessario che la sinistra e le forze democratiche vincano e si impegnino per invertire la tendenza di quest’ultimo decennio, che ha visto dilagare la guerra e i disastri del neoliberismo. Ciò pone al centro del nostro Congresso la questione politica e, più precisamente, il problema del governo.
Le differenze, la pluralità di orientamenti sono risorse, non ostacoli: procurano strumenti, non difficoltà. Per tale ragione riteniamo che sarebbe stato più utile un congresso su documenti a tesi emendabili. Non è stato possibile e perciò contribuiamo alla discussione congressuale con la nostra mozione.

Al governo solo a precise condizioni
Il centrosinistra e Rifondazione Comunista possono vincere le prossime elezioni. Nonostante ciò, non è affatto detto che il futuro governo si farà carico di quelli che consideriamo obiettivi prioritari: la difesa del lavoro contro la precarietà; la difesa dei salari e delle pensioni, duramente colpiti dall’inflazione e dalle politiche economiche di tutti i governi di quest’ultimo decennio; l’abrogazione delle “leggi-vergogna” di Berlusconi; la difesa della Costituzione nata dalla Resistenza antifascista; la messa al bando della guerra, da chiunque dichiarata, e la fine di ogni occupazione militare.
Se ciò non avvenisse, una eventuale partecipazione del Partito della Rifondazione comunista al governo con dei ministri rischierebbe di avere gravi conseguenze sul nostro Partito, sui nostri militanti, sui settori di società e sui movimento che oggi guardano a noi. Per questo pensiamo che, prima di decidere se entrare o meno nel prossimo governo, il Partito debba pretendere precise garanzie a difesa dei soggetti che intende rappresentare, evitando di firmare cambiali in bianco.
Prima i programmi, poi gli schieramenti: questo principio, che ha sempre guidato le scelte politiche di Rifondazione Comunista, è oggi più che mai la nostra bussola.

I diritti del lavoro, questione cruciale
I salari e gli stipendi sono divorati da un’inflazione reale assai più elevata di quella programmata. La precarietà e la flessibilità sono divenute norma. Si vorrebbero superare i contratti collettivi nazionali. Le imprese ricorrono quasi esclusivamente ai rapporti «atipici», a tempo determinato e senza tutele. Le norme sulla sicurezza sono sistematicamente eluse (l’Italia è ai primi posti nelle statistiche sugli incidenti mortali sul lavoro, con oltre 1400 vittime l’anno). La riforma delle pensioni ha duramente colpito il sistema previdenziale, trasformando per i più in un miraggio il raggiungimento dell’età pensionistica e gettando milioni di pensionati in condizioni di povertà.
A questi criteri è necessario sostituirne altri, di segno opposto: piena occupazione e lavoro stabile; difesa del salario (mediante una nuova «scala mobile»); difesa del contratto collettivo nazionale e democrazia sindacale; rilancio della programmazione economica e dell’intervento pubblico, a cominciare dai settori a bassa redditività immediata (infrastrutture, ricerca, formazione); potenziamento dei servizi sociali. Non basta. È tempo anche di prendere sul serio quanto la Costituzione prescrive in materia di funzione sociale dell’iniziativa economica privata, prevedendo forme di controllo «dal basso» sui piani d’impresa, sull’organizzazione del lavoro, sull’impatto ambientale delle produzioni e sull’impiego dei finanziamenti pubblici ricevuti.
La difesa del lavoro e dei suoi diritti è il fondamento di una reale democrazia e il centro delle preoccupazioni dei comunisti. Data per morta, la contraddizione capitale-lavoro resta in realtà centrale. E il lavoro dipendente rimane, nelle sue molteplici forme, il fulcro del blocco sociale in grado di realizzare la trasformazione dello stato di cose presente.

In Iraq c’è una Resistenza di popolo
L’attacco imperialista all’Iraq da parte degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dei loro più stretti alleati (tra cui figura purtroppo anche l’Italia) ha sin qui causato la morte di oltre 100mila civili innocenti. Comunque la macchina bellica più agguerrita del mondo stenta ad avere la meglio contro un Paese distrutto e contro una popolazione stremata.

Ciò si deve al fatto che all’occupazione militare il popolo iracheno ha risposto con straordinario coraggio e orgoglio, realizzando una capillare Resistenza armata che i continui bombardamenti e gli attacchi di terra delle truppe anglo-americane non sono ancora riusciti a piegare.
Questa Resistenza di popolo deve essere riconosciuta e sostenuta quale espressione della legittima aspirazione della popolazione irachena all’indipendenza e all’autonoma determinazione del proprio futuro. Per questo dissentiamo da chi, con la complicità dei mezzi di comunicazione, evoca una presunta «spirale guerra-terrorismo». Non solo questa formula cancella dalla scena la Resistenza irachena, ma per di più suggerisce una inammissibile equivalenza delle responsabilità. Ferma restando la più netta condanna del terrorismo, noi riteniamo invece che la responsabilità di questa guerra criminale incomba esclusivamente su Bush e sui suoi alleati, che hanno scatenato l’attacco all’Iraq per tutt’altre ragioni (il controllo delle risorse energetiche; la competizione geopolitica con la Cina, la Russia e l’Unione europea; gli enormi profitti legati alla spesa militare e al business della «ricostruzione», ecc.).

La nostra storia è un patrimonio, non un problema
Il revisionismo storico, che punta a criminalizzare l’idea stessa della lotta di classe, stravolge l’intera esperienza del movimento rivoluzionario operaio e comunista presentandola come una sequenza di violenze e di fallimenti. Non ci riconosciamo in questi bilanci, che riteniamo storicamente e politicamente errati.
Il movimento comunista ha dato forza alla rivendicazione dei diritti fondamentali delle masse lavoratrici e si è sempre schierato contro la guerra, per la pace e per la giustizia sociale. L’insegnamento dei suoi più grandi dirigenti del Novecento – da Lenin a Gramsci – è ancora un contributo prezioso per l’analisi critica della società capitalistica. Le grandi rivoluzioni che si sono susseguite dopo il 1917 hanno liberato sterminate masse di popolo.
La Resistenza antifascista – nella quale furono in prima fila i partigiani comunisti – ha permesso al nostro paese di riconquistare dignità e democrazia dopo l’infame vicenda del fascismo.
Di questa storia siamo orgogliosi. Non ne dimentichiamo limiti e pagine buie, ma non condividiamo atteggiamenti liquidatori. Rivisitare la storia non significa rimuoverla.
Non condividiamo la assunzione della teoria della nonviolenza come nuovo fondamento di Rifondazione Comunista. Le forme di lotta dipendono dal contesto in cui si praticano:
oggi in Italia è possibile praticare la lotta pacifica anche perché ieri i partigiani, con le armi in pugno, hanno sconfitto il fascismo; per contro in Iraq – dopo una guerra e una occupazione illegittime – il popolo iracheno è costretto a dar vita ad una resistenza anche armata per sconfiggere gli invasori.
Anche il concetto secondo il quale i comunisti non lottano per conquistare il potere ci pare non solo estraneo alla nostra storia, ma incomprensibile. Essere in un governo con dei ministri non significa forse “contaminarsi” col potere? Non c’è mai, nella realtà, un vuoto di potere. Perdere di vista questo terreno, per rimanere puri e incontaminati, significherebbe rinunciare alla lotta politica e renderebbe nei fatti impraticabile l’obiettivo della trasformazione della società in senso socialista.

Il Partito: uno strumento essenziale
Occorre un Partito comunista capace di organizzare lotte, promuovere conflitti, sviluppare movimenti, radicato nella società e nel mondo del lavoro e culturalmente autonomo dalle ideologie dominanti: un Partito, in ultima analisi, che consenta di tenere aperta la prospettiva del superamento del capitalismo.
Ciò pone in primo piano la necessità di una politica per l’organizzazione, tesa in particolare alla formazione di quadri e militanti, al rafforzamento e al rilancio delle strutture di base. I circoli, sia quelli territoriali che di luogo di lavoro, vivono oggi uno scarso coinvolgimento nella elaborazione della linea politica del Partito.
Per queste ragioni, si richiede una correzione di linea rispetto al V Congresso, che ha puntato a costruire un Partito “leggero” e “mediatico”. Ne sono conferma il calo degli iscritti e, ancora di recente, la scarsa partecipazione alla nostra ultima manifestazione nazionale.
Occorre una netta inversione di tendenza, che consenta di recuperare i gravi ritardi nella discussione sullo stato dell’organizzazione, e di riconoscere nel Partito e nella sua forza organizzata uno strumento essenziale per la trasformazione della società.