Sinistra, non ci sono più scorciatoie

Diversamente da Valentino Parlato, credo che giustamente Bertinotti veda il pericolo: il sistema politico-mediatico mira a spingere nell’angolo quel che resta di rappresentanza della domanda sociale, e possibilmente a toglierselo di torno. Vediamo l’ultima: Rc e Pdci o incassano una riforma pensionistica men che moderata, pagando un alto prezzo fra i lavoratori, che sono la loro base, oppure la respingono facendo cadere il governo e spostando l’equilibrio istituzionale a destra – cosa che gli verrebbe rinfacciata più ancora della rottura del 1998. Non c’è oggi una alternativa a sinistra: sono possibili soltanto una riedizione del centrodestra, assai probabile se si andasse alle elezioni, o un governo centrista se la maggioranza riuscisse a scaricare Rifondazione, Pdci e Verdi attraverso un allargamento all’Udc e la conquista di un numero sufficiente di deputati e senatori sciolti. Che quest’ultimo sia l’obiettivo finale della Margherita e di gran parte del Pd è dichiarato, ma i numeri non ci sono ancora. Resta in campo anche il pasticcio di un governo tecnico bipartisan, che sembra evocare ogni tanto il Presidente della Repubblica, ma questo scaricherebbe anche Romano Prodi, che non è disposto a tutto, e sarebbe il preludio a un nuovo centrodestra.
Parlato ha ragione di scrivere che bisogna indicare il «che fare», ma intanto vediamolo per quel che è: non solo un incidente di percorso e non solo in Italia. Lo stesso e peggio succede in Francia, dove la destra di Nicolas Sarkozy non solo ha vinto, ma si sta mangiando pezzo per pezzo l’opposizione socialista, mentre quella più a sinistra è già ridotta ai minimi termini. E da un pezzo è successo in Germania dove la Linke si è faticosamente costituita ma resta istituzionalmente fuori gioco, la Spd essendo disposta a trattare fili con la destrissima Csu ma non con la propria costola di sinistra. In Spagna la stessa esistenza di una sinistra radicale è in causa. Se si aggiunge che da noi la Sd di Mussi, appena separata dai Ds, si riaccosta al governo proprio sul tema bruciante delle pensioni, lo stato della sinistra legata alla dimensione sociale – la sola che abbia un senso chiamare tale – appare davvero critico. Che fare, dunque? E’ qui che la risposta di Bertinotti, ma anche, se non sbaglio, quella più recente di Diliberto, non mi persuade. Il presidente della Camera scrive su Alternative che sarebbe maturo un soggetto politico unitario, aggregando Rc, Pdci, Verdi e il femminismo, i movimenti, le molteplici associazioni di base. Ma su che cosa e per quale obiettivo? Oggi come oggi il loro massimo comun denominatore sarebbe in verità minimo, una certa insopportazione dello stato delle cose presenti, cioè non molto di più di quello che legò in una coalizione elettorale queste diverse figure con altre, assai meno radicali, contro il governo Berlusconi. Né mi sembra molto più incisiva la posizione di quanti in Rc preferiscono andare a una confederazione tra diversi per difendere ciascuno la propria identità. Quelle identità appaiono, ora come ora, così deboli di fronte alla riaffermazione mondiale del capitale e del mercato che mantenere un antagonismo è moralmente lodevole ma politicamente di scarso impatto.
Ma mentre ha ragione Revelli quando accusa i partiti di sordità nei confronti della pluralità delle idee e «sensibilità» espresse dalla società, non è che dall’addizione di molte pluralità esca un progetto. Non è per caso né per puro conservatorismo burocratico che la sinistra della sinistra è divisa e stenta a trovarsi un’idea capace di dare e darsi ragione delle altre e di dialogare con esse. Ascolto e conversazione non sono ancora dialogo.
Siamo di fronte a un processo mondiale di mercificazione, organico, articolato e in via di accelerazione. Non sembra ragionevole puntare su una sua messa in crisi per inteme contraddizioni: è un pezzo che ogni ipotesi di catastrofismo si è rivelata illusoria Né ha senso dirsi che la sua mortale contraddizione già sta nel fallimento della speranza di benessere per tutti che il capitalismo prometteva, perché il capitalismo non ha mai promesso nulla di simile. S’è limitato a dire che le leggi del mercato sono ineludibili, è necessario adeguarvisi e molti possono trovarvi il loro profitto. Un’egemonia nel senso gramsciano non è nelle sue necessità, come la felicità, la libertà e l’uguaglianza non sono suo fine. Un interessante saggio di Paul Krugman su Milton Friedman -quello dei Chicago boys che fecero strage in America Latina negli anni 70 e ’80 – ricostruisce bene la posta in gioco in quegli anni (cfr. La Rivista dei Libri, Firenze, n. 7-8 del 2007, da The New York Review of Books). Vale più chiedersi perché il diritto all’uguaglianza nella libertà non sono più senso e bisogno comune, mentre la fatalità del mercato lo è diventato.
Già su questo daremmo risposte diverse fra Rc, Pdci e, per esempio, il manifesto. Noi pensiamo che il fallimento del cosiddetto socialismo reale, che è apparso per quasi un secolo l’alternativa fatta realtà, sia stato prodotto da una serie di scelte, comprensibili ma sbagliate e certo non obbligate, la cui data di inizio e sequenza sono riconoscibili, e che contraddicevano lo stesso progetto di emancipazione sociale, e hanno a che vedere più con la concezione della politica e del potere che con il tradimento dei capi o il complotto internazionale. Ma questa non è la risposta finora avanzata né da Rc né dal Pdci. Quanto a quel che scriveva a Valentino il lettore Ibba (domenica 22 luglio), e cioè che l’errore stava in Marx, è soltanto la vulgata liberista più diffusa e già in via di declino, quella secondo la quale non conterebbero niente le condizioni materiali della libertà.
D’altra parte questa considerazione non concerne il femminismo, che non senza ragione sposta fuori del tèmpo storico e della modernità il conflitto fra i sessi. Nel quale succede che l’emancipazione procede contemporaneamente alla mercificazione, peraltro non specificamente capitalistica, lasciando aperta la questione della libertà femminile – sulla quale i femminismi danno interpretazioni differenti. Né la considerazione di cui sopra è presa in conto dal pensiero ecologico, fatti salvi O’Connor e pochi altri; esso, differentemente dal femminismo, ha una precisa storicità, ma non la collega a un modo di produzione.
Da queste diverse realtà e visioni del paesaggio politico derivano priorità diverse sul che essere e che fare, dalle quali si possono trarre un patto d’unità d’azione ma difficilmente un soggetto politico unitario – per innovativa che sia la sua maniera di essere o decidere rispetto ai partiti del secolo scorso. Occorre prima un lavoro di confronto e la definizione di azione comune su alcuni obiettivi, che non pretenda una repentina unità di culture – e già questo implica una qualche omogeneizzazione delle priorità oltre che un metodo collettivo e articolato di decisione.
E poi non c’è da illudersi che una federazione di diversi nell’ambito nazionale riesca ad avere non dico ragione ma una forza di contrattazione efficace rispetto a un sistema di dominio del tutto mondializzato. Questa soggettività dovrebbe essere almeno continentale, per far fronte a quella fetta di mondializzazione che rappresentano i poteri sovranazionali dell’Europa. Neanche la sinistra europea, che io sappia, riesce a coordinare proposte comuni neppure sul fronte dove più decisa e omogenea è l’offensiva della controparte. In nome della mano invisibile del mercato, l’Europa si è preclusa qualsiasi piano economico, non interviene sul costo della vita e quindi sul salario né sul precariato o le pensioni, dove vigono soltanto ma inesorabili le regole della Banca centrale, cioè competitività e monetarismo. Con conseguente deregulation, cioè attiva dissoluzione da parte degli stati nazionali di ogni regolamentazione o compromesso fra “compatibilità economiche” e diritti delle persone. Come faccia un sindacato a difendere uomini e donne necessariamente radicati in un paese da un’impresa mobile e autorizzata ad andarsene anche fuori continente quando gli pare è un mistero. E non parliamo dei famosi valori per i quali l’Europa sarebbe nata – altro che la Turchia, in Polonia il cattolicesimo più integralista può tutto, il diritto di aborto non esìste ed è tanto se la Corte suprema ha messo in causa una legge offensiva dei diritti civili, varata dall’attuale maggioranza, che non ha rinunciato a reintrodurre la pena di morte.
Questa elaborazione, contemporanea alle iniziative che incalzano, è complessa quanto in ritardo. Anche per le pensioni, mi permetto di osservare, né da sinistra del Pd né dalla Cgil è venuta una riflessione innovatrice sull’intero sistema che, che prendendo atto delle modifiche apportate e che apporterà a breve la tecnologia nella formazione della forza di lavoro, della composizione per età della popolazione, del flusso immigratorio, di una mondializzazione dagli squilibri crescenti fra zona e zona del pianeta, avanzasse una proposta innovativa e a maggiore, non minore, difesa dei lavoratori e degli anziani. E’ stata condotta una battaglia di difesa della situazione esistente e poco più (sulle pensioni minimissime, sui lavori usuranti e per le donne), e sarà rinnovata e rafforzata, si spera, in parlamento, quando i risultati sulla previdenza saranno commisurati su tutto il problema lavoro – del quale il precariato è il dossier più bruciante -e dovrebbero essere infine sottoposti a referendum.
Sta di fatto che, ora come ora, l’intera operazione è fatta a costò zero per l’insieme della società, come se il «lavoro», sempre più complesso, materiale e immateriale, fosse una corporazione fra le molte, non il settore innervante dell’intera struttura sociale. Nel crescere della produttività e dei profitti d’impresa su scala mondiale, nella prevedibile accelerazióne delle tecnologie, vecchia e nuova sinistra si contentano di poco – quando non dichiarano una curiosa convergenza di fatto tra il Partito democratico nascente e certi settori dell’ex nuova sinistra: la questione sarebbe invecchiata o una rivoluzione di fatto sarebbe stata già raggiunta nelle nuove figure sociali, meno classe e più moltitudine, che in occidente avrebbero acquistato più potere e, si suppone, maggiore partecipazione ai profitti. Il problema è posto, ma le risposte sono per ora povere, enfatiche o difensive, quando non rassegnate a una interpretazione del cambiamento e della «modernizzazione» della quale l’araldo più coerente è senz’altro Walter Veltroni. Il suo programma esclude il conflitto come riprovevole, delegittimando ogni rappresentazione della classe non proprietaria – che chiamerei ancora proletariato, vecchio o nuovo che sia – come di ogni altro soggetto che punta a trasformare idee e «valori» che sono stati portanti per secoli.
Si potrebbe sorridere osservando come la fine della storia, che ha avuto sempre e solo il senso di fine del conflitto sociale, venga affermata proprio mentre la storia subisce un’accelerazione finora sconosciuta.
Ma di questo un’altra volta.