Ho ascoltato con la dovuta attenzione l’intervento di Pietro Folena alla Conferenza di organizzazione di Rc-Se, e prima avevo letto le sue interviste sulle proposte di costruzione di una sinistra negli spazi vuoti che verranno aperti dalla nascita del Partito democratico. Sulle proposte, avanzate peraltro anche da Walter De Cesaris nella sua relazione a Carrara, non ci sono dissensi: aprire case della sinistra dove forze differenti impegnate nella trasformazione del capitalismo possano ritrovarsi in un comune spazio pubblico per sperimentare insieme nuove pratiche sociali. Questa scelta, che si può concretizzare anche in cantieri della sinistra, è adeguata alla sfida che proviene dal Partito democratico, il quale risponde alla crisi del movimento operaio del ‘900 con un’opzione politico-culturale social-liberale, cancellando insieme tradizione e prospettiva della sinistra.
Contro questa cancellazione finalmente si è profilata un’opposizione decisa anche nei Ds, dove significativi gruppi la rifiutano e si aprono a un confronto con le forze della sinistra antiliberista.
La rottura dei Ds è un fatto di primaria grandezza, che scompone il quadro politico a sinistra. Mussi non solo per tattica congressuale ripropone l’orizzonte dell’alternativa per il socialismo europeo, che Folena declina come ritorno alle origini del socialismo italiano, almeno per le sue modalità di costruzione. Quel che affascina Folena è che negli anni 1890-1893 il Partito socialista si costituì sulla base delle mobilitazioni e partecipazione delle leghe operaie, contadine e bracciantili, delle cooperative, delle società di mutuo soccorso, delle Federazioni di mestiere, delle Camere del lavoro.
La «società degli sfruttati» si era organizzata e necessitava di una rappresentanza politica e istituzionale che, mancando, indeboliva le sue rivendicazioni, impediva alle lotte di avere una generalizzazione e una sanzione nelle leggi, e i movimenti pur organizzati erano tagliati fuori dall’arena pubblica. Dunque il fascino della costruzione del Psi delle origini deriva da questo agire organizzato nella società, non certo dalla commistione ideologica di Mazzini, Bakunin e Marx. E Folena lo ripropone come modello.
È un buon proposito, però, la questione che Folena salta a piè pari è che oggi le rappresentanze politiche e parlamentari a sinistra esistono, ma non sono in grado di rappresentare i movimenti nella loro ricchezza e radicalità, non sono funzionali all’agire collettivo organizzato. Sono piuttosto una rappresentazione, parlano «in nome di», senza che si attivi un circuito di comunicazione e decisione tra rappresentanza e rappresentati. Sembrano però intenzionate a essere motore e guida della nuova casa della sinistra.
I Ds, teorizzando la «democrazia immediata», hanno eliminato alla radice la questione della rappresentanza: sono i leader a rappresentare direttamente il popolo, per questo da dieci anni si battono per l’elezione diretta del governo, così da legittimare plebiscitariamente l’esecutivo. La crisi dei partiti è risolta dai Ds con il leaderismo, la personalizzazione della politica, che si rispecchia nel modo d’essere del Partito democratico come sommatoria di comitati elettorali.
Anche nella sinistra che si vuole alternativa la politica si presenta nella sua separatezza, e ciò è dovuto non solo all’autoreferenzialità dei ceti politico-parlamentari che da decenni si riproducono attraverso scissioni e re-incontri rimanendo chiusi entro i propri confini di partito, ma questa separatezza è dovuta anche all’incapacità di fare i conti con la nuova articolazione tra sfera politica e sfera sociale. I movimenti e le organizzazioni sociali rifiutano la delega, non si percepiscono più come parzialità bisognose di essere «generalizzate dalla politica», dal partito.
Ormai l’epoca della scissione tra «sociale» e «politico» è alle nostre spalle: la Cgil è sindacato autonomo e generale; i Cobas hanno come segno distintivo l’unione tra le due sfere; l’Arci, Legambiente, Attac, Carta e la galassia dell’associazionismo sono parte dei movimenti antiliberisti al pari della Fiom, dunque fanno politica senza l’intermediazione dei partiti. La politica torna a essere la loro pratica sociale, così come per i nuovi municipi gli spazi pubblici locali sono ambiti di ricostruzione del welfare e di gestione dei beni pubblici. Le cinghie di trasmissione non esistono più, né i movimenti sono una massa usabile dai partiti per acquisire potere. Non si può più parlare «in nome e per conto di», in quanto i soggetti sociali parlano per proprio conto e a nome proprio.
Le stesse lotte di «comunità» non sono d’impronta localistica. Vicenza è un movimento che mette in discussione la strategia militare in Europa e non chiede di essere «mediata» ma ascoltata dalle istituzioni perché ha proposte complessive alternative da avanzare; la Val di Susa non dice solo «no al tunnel», parla di un’altra visione dei trasporti e del territorio. Potrei continuare con le lotte per la riconversione dell’industria bellica, o contro gli inceneritori, così come con le lotte contro la precarietà e le privatizzazioni.
Oggi esiste una rappresentanza, a differenza della fine dell”800, solo che è separata dai movimenti, i quali non trovano espressione in essa.
Questo il nodo: come la società si riappropria della rappresentanza. E non è un fatto di tecnica elettorale, è un fatto politico, cioè di come la politica di sinistra diviene una funzione dell’agire sociale. Non a caso Rc ha intenzione di realizzare una sua trasformazione organizzativa per divenire luogo dove è possibile «fare società». Dietro la giusta e diffusa preoccupazione che una nuova sinistra sorga solo al vertice, dall’incontro tra gruppi dirigenti c’è la questione «di chi rappresenta chi», di come ci si rapporta con i soggetti attori dei conflitti sociali e culturali.
Dopo Genova non può più esserci un partito-totalità, cioè rappresentante dei movimenti, proteso all’egemonia: una nuova soggettività di sinistra non può che essere parte, stare nelle coalizioni dei movimenti che nascono per attuare principi (come quello pacifista), o progetti (migrazioni, beni comuni, precarietà, rifiuti, grandi opere…) o per costruire luoghi di nuove relazioni e conflitti (centri sociali).
Le case della sinistra devono essere gli spazi pubblici entro cui possano agire queste molteplici forze, i luoghi dove selezionare anche la rappresentanza politica e istituzionale in funzione non degli interessi di ceto ma dello sviluppo dei movimenti. Fare società per fare politica.
* deputato Prc-Sinistra europea