Si può usare il mitra per amore? Che Guevara visto da un cristiano

Non fraintendete. A nessuno verrà mai in mente di sostenere che Ernesto Che Guevara fosse un cristiano. Però c’è chi prova a dire che l’impegno etico e politico del più famoso tra i rivoluzionari del ‘900 possa essere condiviso anche dall’interno del cristianesimo. Che anche un cristiano possa trovare più d’un motivo per identificarsi con l’eroe per antonomasia della lotta armata e dei movimenti di liberazione dei popoli oppressi in America latina. E che non abbia, invece, motivi per dissociarsi da colui che fu anche, prima, compagno d’armi di Fidel Castro sulla Sierra Maestra, e poi dirigente politico di primo piano nella Cuba socialista.
Che Ernesto Guevara continui a far discutere, che la sua vita da guerrigliero continui ad alimentarne il mito ancora oggi nell’immaginario giovanile, che sul suo lascito politico e sentimentale si continui a pubblicare libri e imbastire dibattiti – che tutto questo avvenga è ordinaria amministrazione. Più sorprendente, invece, è che un ex sacerdote scriva un libro dal titolo Che Guevara visto da un cristiano. Il significato etico della sua scelta rivoluzionaria (Sperling & Kupfer Editori, pp. 314, euro 11,50) e presenti il guerrigliero marxismo come anticipatore di un socialismo umanistico molto meno lontano dai principi del cristianesimo di quanto si creda. Anzi, così vicini da essere un tutt’uno. L’autore è nientemeno che Giulio Girardi, teologo e filosofo autorevole. Un passato illustre, prima come docente in diverse università salesiane e cattoliche, poi estromesso dalle gerarchie ecclesiastiche a causa dell’eccessiva vicinanza con le posizioni della teologia della liberazione, successivamente impegnato nella solidarietà attiva in America Latina, in particolare con Nicaragua e Cuba.

Ma quale tratto in comune dovrebbe scoprire un cristiano – per altro, fautore della non violenza attiva – nella figura di un guerrigliero? E, per giunta, di un ateo materialista che scientemente ha teorizzato – e praticato – il ricorso alle armi per la liberazione dei poveri dall’oppressione? E come può il ministro di un paese a tutti gli effetti inserito nel campo socialista – carica ricoperta da Che Guevara a Cuba per anni prima di morire in Bolivia nel ’67, incarnare l’ideale di un marxismo umanistico in sintonia con i principi cristiani? Ci si aspetterebbe, insomma, un libro polemico, un’esaltazione della visione gandhiana e non violenta della politica in contrapposizione alla strategia armata del marxismo, una condanna del modello negativo del guevarismo in nome dell’amore cristiano.

Ma dell’eterno conflitto tra violenza e non violenza non c’è traccia nello scritto di Giulio Girardi, propenso piuttosto a relativizzare l’antinomia tra queste due opzioni. «Bisogna evitare – così ha spiegato durante una presentazione del libro insieme a Domenico Jervolino e Giovanni Franzoni – gli estremismi nella condanna della violenza, altrimenti si rischia d’essere troppo severi nei confronti di chi si è battuto, come il Che, per l’emancipazione degli sfruttati». Ma non è un paradosso prendere le armi per amore? Non si annida nella strategia armata il pericolo di entrare in contraddizione con gli obiettivi dichiarati? Certo, bisogna contestualizzare, non si possono paragonare le circostanze drammatiche di alcune epoche storiche – l’Europa occupata dai nazisti, i paesi del Terzo Mondo in lotta contro l’imperialismo, ad esempio – con il presente. Non si può sindacare su scelte rese ineludibili dai passaggi storici. Ma non si tratta solo di questo. Il punto è che «tra amore cristiano e violenza rivouzionaria non c’è contraddizione. Il Che – contrariamente a certe letture mitiche oggi diffuse – non era un eroe individuale». Non prese le armi per egoismo personale, per ambizione, per sete di gloria, per avidità di ricchezze e potere. «Interpretava invece istanze popolari e la guerriglia doveva essere ai suoi occhi sempre collegata con le aspirazioni di libertà e uguaglianza delle masse. L’alternativa violenza – non violenza va relativizzata. Quel che conta è con chi ci si identifica».

Cos’è in fondo a rendere affascinante la figura di Guevara ancora oggi, si chiede Girardi, in un mondo dominato dal pensiero unico, da una politica di piccolo cabotaggio, legata a interessi meschini, se non l’esempio concreto della sua vita e del suo impegno? Non c’è dubbio che l’icona del Che rievochi la scelta di una dedizione senza limiti alla causa della liberazione dei popoli, così incondizionata da ammettere la probabilità della morte. «Tutte le volte che il Che dichiara il proprio impegno rivoluzionario o invita altri a impegnarsi, lo fa con la chiara consapevolezza che ciò significa esporre tutti i giorni la propria vita, affermando la propria disponibilità ad assumere coerentemente tale rischio». Beninteso, la coerenza di Ernesto Guevara, la sollecitudine a vivere sulla propria pelle l’impegno rivoluzionario, ammette sì la morte come possibilità “logica”, ma non è per nulla riducibile al cercare la morte o al desiderarla. La dedizione incondizionata ai bisogni dei popoli è bene riassunta nella formula che ancora oggi si legge per le strade di Cuba, «vittoria o morte». La morte non è il sacrificio inutile, è solo una probabilità nella prospettiva di farcela, di poter cambiare davvero il mondo, di vincere nella lotta contro l’imperialismo. Al di fuori di questo ottimismo storico la morte sarebbe inutile. «Se la vittoria finale dell’antimperialismo è impossibile, il Che è morto inutilmente: il suo martirio continuerà ad avere ammiratori, ma non più imitatori. Nessuno vuole morire inutilmente».

Altro effetto a sorpresa del libro di Girardi, appunto. Nessun cedimento a riscrivere la storia del Che in chiave di una moderna martirologia, nessun tentativo di appropriarsi di Ernesto Guevara alla stregua di un Cristo contemporaneo, sovrapponendo alla sua vicenda storica la vicenda di Gesù morto sulla croce per un sacrificio “inutile”. E, allora, di nuovo, perché un cristiano dovrebbe appassionarsi a un guerrigliero materialista? Il titolo del libro potrebbe generare, si è già detto, più d’un fraintendimento, ma «il riferimento all’autore come cristiano – racconta Girardi – non vuol essere un’appropriazione del guerrigliero eroico da parte del cristianesimo. Quella del Che è in realtà una dedizione eroica, ma laica. La ricostruzione della sua figura, di cui il libro vuol essere un timido tentativo, intende appunto mostrare la possibilità e l’esistenza di un’etica laica. Questo è forse difficile da ammettere per un cristiano abituato a ritenere che un’etica autentica non sia possibile senza un fondamento religioso. Difficile da ammettere particolarmente all’epoca di papa Ratzinger che ritorna con insistenza, per esempio nel suo dialogo con i giovani, sullo stretto rapporto tra etica e religione cristiana. Così nessuno spazio rimane aperto alla generosità laica, né alle religioni non cristiane, con le quali pure si vorrebbe aprire un dialogo. Il Che non è cristiano, ma vi sono aspetti della sua ricerca, dei suoi ideali, della sua vita e della sua morte, cui un cristiano non può non essere particolarmente sensibile».

Primo aspetto. Al fondo del progetto rivoluzionario del Che vi sarebbe l’amore. Non un amore ineffettuale, condannato alla paralisi dinanzi al mondo così com’è. Ma un «amore storicamente efficace», una «solidarietà dagli orizzonti mondiali», come quella che Ernesto Guevara descrive nella lettera d’addio ai figli prima di partire per la Bolivia dove troverà la morte, un vero e proprio testamento. «Soprattutto siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo. E’ la qualità più bella di un rivoluzionario». Ma è, appunto, amore storicamente impegnato, amore consapevole della propria vacuità se scisso dall’impegno politico che, a sua volta, si esprime nella scelta degli oppressi come soggetti.

Secondo aspetto. La versione “politica” dell’amore rende Che Guevara agli occhi di Girardi il preconizzatore di un socialismo diverso, più conforme alla realtà cubana e, in generale, a quella dell’America Latina. Un socialismo immune dal vizio dell’economicismo e dell’oggettivismo – contro i quali il Che si scaglia in più d’uno scritto. Il socialismo non si può costruire su categorie capitalistiche – ripete Guevara – non può prendere a fondamento la legge del valore, ma deve prediligere la dimensione etica, la centralità del popolo. Al burocraticismo, al rischio di un partito separato dalle masse, a un sistema basato sull’individualismo e gli incentivi, il Che non smetterà mai di contrapporre la figura morale dell’«uomo nuovo». Quasi una versione in chiave socialista della morale kantiana per la quale l’uomo è chiamato alla solidarietà, al lavoro e alla lotta «senza altra soddisfazione che l’assolvimento del dovere». Così prende forma un socialismo umanistico, il modello di una società di uomini che praticano amore e solidarietà per solo impulso morale e non per tornaconto economico. Da raffinato esegeta dei testi del marxismo, Girardi non omette l’ennesima affermazione che sfata un altro mito: quello della frattura insanabile tra il Che e Fidel. «Il pensiero del Che – ha raccontato Castro in un’intervista che Girardi riporta – ha sempre avuto una grande rilevanza a Cuba, ed in me personalmente ha avuto una permanente e crescente presenza. La mia simpatia e la mia ammirazione per lui crescono nella misura in cui vedo tutto quanto è successo nel campo socialista, perché lui era decisamente contrario alla costruzione del socialismo con le categorie del capitalismo».