Si parli di politica estera italiana

E’difficile intervenire nel dibattito sul ritiro dei soldati italiani dalle missioni all’estero senza conoscere nel dettaglio cosa c’è scritto nel decreto approvato ieri dal Consiglio dei Ministri.
Difficile perché il dibattito dovrebbe riuscire a rimanere proprio sul merito della questione. E il merito riguarda la politica estera italiana: centinaia di migliaia di donne e uomini in questi anni hanno manifestato, proprio perché si producesse una chiara alternativa alla politica estera italiana basata sull’idea dell’intervento armato per “garantire la sicurezza”. Ancora in queste settimane migliaia di persone hanno firmato appelli, organizzato assemblee e dibattiti, chiedendo «di interrompere le missioni militari in teatri di guerra e ritirare le truppe italiane dall’Iraq e dall’Afghanistan», come recita l’appello promosso da Ciotti, Strada, Dell’Olio e Zanotelli – appello a cui ha aderito anche “Guerra&Pace”.

La decisione del governo si avvicina a questo obiettivo? Dalle dichiarazioni dei ministri (Parisi per primo) e dai resoconti stampa non sembra. Il “compromesso” raggiunto si basa sul mantenimento della missione in Afghanistan «perché ce lo chiede la Nato», come ha affermato più volte Massimo D’Alema, e la riduzione delle truppe (rispetto alle circa 1500 presenti oggi, o alle 2200 che sono state la punta massima raggiunta?) sembra profilarsi come avvicendamento tutto interno al quadro dato.

Anche se per fortuna non ci saranno – pare – l’invio di nuovi mezzi e lo spostamento anche a sud del contingente italiano, questo continuerà a operare con l’operazione Nato e in collaborazione con “Enduring Freedom”.

Non mi sembra un “buon compromesso”.

Purtroppo il dibattito troppo spesso si è concentrato sul ricatto di chi ha visto nella meritoria scelta degli 8 senatori un rischio per il governo. Impostare in questo modo la discussione significa perdere di vista il merito, ed esporsi ad una continua diatriba su quali siano i “paletti” e chi sia più “pericoloso” per la maggioranza di governo.

Nel merito continuo a pensare che i risultati raggiunti, grazie all’iniziativa di Rifondazione Comunista, siano sicuramente un passo avanti, ma non vadano nella direzione del progressivo disimpegno dalla missione di guerra in Afghanistan.

Potranno esserci significativi passi avanti nel disegno di legge e nel dibattito parlamentare – come ritiene Piero Sansonetti? Questo sarà possibile se continuerà l’iniziativa del movimento contro la guerra e dei gruppi parlamentari che con il movimento si confronteranno. A questo punto mi interessa poco il dibattito “di metodo” – e trovo offensive le posizioni, speculari, di chi vede nella scelta della “riduzione del danno” un tradimento o addirittura una rottura con il movimento e, all’opposto, di chi ritiene che la scelta del “no” equivalga ad un comportamento da “anime belle” o addirittura un regalo a possibili “diritti di ricatto” da destra.

In campo non c’è nessun ricatto, ma la scelta politica di una parte del movimento di mantenere la pressione per ottenere un risultato migliore.

Qualsiasi sia poi questo risultato, dobbiamo avere ben chiaro che il movimento non chiude la sua iniziativa il 17 luglio, e che la necessità della sua “unità e radicalità” sarà ancora in primo piano. Per questo avremo bisogno di tutte/i, qualsiasi sia oggi la valutazione sul voto sul decreto, perché al momento della Finanziaria si porranno le questioni – davvero dirimenti – delle spese militari e della necessari discontinuità con la politica estera che vuole forze armate più attive e più… armate.