Sì, gli europei sono per la pace

Quello che da giorni infuria intorno al sondaggio promosso dalla Commissione europea è un indecente polverone. A quanti non hanno avuto modo di documentarsi – e si tratta ovviamente della maggioranza della popolazione, sia in Italia che negli altri paesi dell’Unione – è stata data, da giornali e televisione, l’idea di una sorta di referendum “pro o contro Israele”. Posto il problema in questi termini, alla luce dei risultati della rilevazione l’accusa è scattata immediatamente, con tanto di sentenza inappellabile: antisemitismo. Siamo in un momento davvero cupo e preoccupante. Il conformismo impera, e con esso trionfa l’intimidazione nei confronti di qualsiasi voce dissonante. In questo caso la versione ufficiale dei fatti è radicalmente falsa, ma sembra che nessuno osi sollevare la questione. Il sondaggio comprendeva ben dieci domande, nove delle quali relative al ruolo internazionale degli Stati Uniti e alla guerra in Iraq. La grande maggioranza degli intervistati (il 68%) si è pronunciata duramente contro la guerra americana, e questo, più di ogni altra considerazione, spiega la levata di scudi. Dopo le gigantesche manifestazioni dell’anno scorso, non si tollera che i popoli esprimano il proprio desiderio di pace e la propria avversione alla prepotenza e alla violenza bellicista. Quanto a Israele, l’unico elemento che, speculazioni a parte, emerge dalle risposte, è il fatto che la maggior parte degli europei imputa al governo di Tel Aviv – in ciò accomunandolo all’amministrazione Bush – di alimentare la tensione internazionale. Vi è in ciò alcunché di esecrabile? Dove si manifesta, in tale giudizio, la propensione antisemita? Se non si vuol speculare sul senso delle risposte, l’antisemitismo c’entra qui altrettanto poco quanto l’antiamericanismo con le critiche al governo di Washington: altro sono i popoli, contro cui nessuno si sogna di polemizzare, altro i governi. Non è forse vero che sulla politica razzista di Sharon – culminata nella costruzione di un Muro che sigilla le frontiere di Israele, includendovi anche quei Territori occupati di cui invano innumerevoli risoluzioni dell’Onu chiedono la restituzione al popolo palestinese – incombono enormi responsabilità nella drammatica e forse irreversibile recrudescenza del conflitto mediorientale? E non è altrettanto vero che gravissime responsabilità politiche e morali gravano sul presidente Bush, che – sfidando la stragrande maggioranza degli Stati, l’Onu e l’opinione pubblica mondiale – non ha esitato a bombardare e occupare un paese sovrano solo perché il controllo di questo paese è cruciale per gli interessi statunitensi sul piano geopolitico ed economico? Sono 15mila gli iracheni morti in questo conflitto, stando a stime ufficiali approssimate per difetto. Ma questo dato pesantissimo non basterebbe a imporre la sordina al pronunciamento pacifista dei cittadini europei. C’è, di più, lo stillicidio dei morti americani – 378 ad oggi – ai quali vanno aggiunti 2.149 feriti e 6mila militari rimpatriati per motivi di salute. Il programma della guerra “a costo zero” si rivela un miraggio, lo spettro del Vietnam si fa ogni giorno più concreto. La paura di rimanere impantanati serpeggia ormai anche tra i generali Usa e, mentre già si profilano le elezioni presidenziali, Bush vede calare, giorno dopo giorno, il consenso alla sua politica di guerra. Ecco perché occorre creare falsi allarmi, manipolare l’informazione, diffondere notizie infondate su pericoli inesistenti. Ma se questo è vero, allora è tanto più necessario insistere sulle ragioni di chi si è opposto alla guerra e chiedere l’immediato ritiro di tutte le forze di occupazione a partire dal contingente italiano: altro che la “disponibilità” manifestata di recente da Rutelli e Fassino! Questo sondaggio aiuta la mobilitazione per la pace. E aiuta anche la discussione sulle colpe del governo Sharon, che ha scatenato la violenza e oscurato le speranze di pace in Medio Oriente nell’illusione di risolvere con le armi e con la pulizia etnica la questione palestinese. Ai palestinesi si nega il diritto a una terra, a uno Stato, all’acqua, a qualsiasi forma di libertà e di autodeterminazione. Se questo è vero, come è vero, è sostenibile che l’attuale politica del governo israeliano sia ancora riferibile ad uno Stato democratico? Chiudo con una breve citazione che dovrebbe far riflettere anche chi – con un perverso eccesso di zelo – distribuisce a destra e a manca l’accusa di antisemitismo. «E’ molto più facile lamentarsi che il mondo intero sia contro di noi che ammettere che lo Stato di Israele, nato come rifugio e fonte di orgoglio per gli ebrei, non solo si è trasformato in un luogo meno ebraico e meno sicuro per i suoi cittadini, ma è diventato una fonte di pericolo e una fonte di vergogna per gli ebrei che vivono fuori dei suoi confini». Questa frase non è stata scritta da qualche nemico di Israele, campeggia sulla prima pagina di Ha’aretz, importante quotidiano progressista israeliano. La meditino quanti oggi si uniscono al coro di riprovazione per il sondaggio europeo. E la meditino quanti hanno a cuore pace e giustizia. Vi è, in queste parole, una ragione in più per valorizzare le manifestazioni dell’8 e del 9 novembre contro il Muro di Sharon e per una pace giusta in Medio Oriente.