Sull’orlo dell’esplosione sociale. L’Argentina affronta la sua crisi – la recessione dura da tre anni – senza più alcun paracadute, con una spaccatura netta tra i vertici istituzionali (di governo e d’opposizione) e le forze sociali, i tre sindacati principali. Per domani, infatti, è stato proclamato lo sciopero generale.
Il presidente Fernando De La Rua e il super-ministro dell’economia, Domingo Cavallo, hanno nei giorni scorsi deciso la strategia per ridurre il deficit pubblico: diminuire del 13% le retribuzioni dei dipendenti pubblici e le pensioni superiori alle 660mila lire al mese. Per comprendere la portata sociale delle misure bisogna avere ben chiaro che il livello dei prezzi, con l’esclusione della carne di manzo (forse la principale risorsa del paese), è praticamente uguale a quello europeo. Anzi, in alcuni servizi (telefonia, poste, trasporti), è spesso anche superiore. Il prezzo di un francobollo da cartolina dall’Argentina all’Europa, per esempio, è di 4.000 lire; dall’Italia all’Argentina solo 1.000 lire. Mentre il salario medio di un operaio è di 300 dollari al mese; quello di un insegnante di scuola superiore, 400.
Presidente e ministro hanno dichiarato che la “cura” si è resa indispensabile vista l’impossibilità del governo di ottenere ulteriori crediti sui mercati. Per sostenere lo sforzo hanno cercato di mettere in piedi un clima politico da “unità nazionale”, chiedendo l’appoggio dell’opposizione peronista. D’altro canto a ottobre ci saranno le elezioni politiche, e presentarsi alle urne come gli unici “affamatori del popolo” significherebbe andare incontro alla disfatta. I 14 governatori provinciali eletti nelle liste del Partito Giustizialista hanno raccolto l’invito, anche se non nella misura che De La Rua e Cavallo speravano. Dopo quattro giorni di trattative, infatti, i 14 peronisti hanno deciso di firmare un proprio documento anziché quello preparato dai governatori della coalizione di governo (di “centro-sinistra”), il cosiddetto “Patto per l’indipendenza”. De La Rua ha comunque ringraziato pubblicamente “il realismo e il coraggio” dell’opposizione, dichiarando che questa presa di reponsabilità “farà storia”. Di retorica, del resto, in questi giorni ne scorre davvero molta. “Stiamo facendo una rivoluzione che cambierà la storia del paese per molti anni”, ha dichiarato ad un certo punto De La Rua. Queste misure “non saranno sufficienti a eliminare il deficit”, ma dovrebbero – secondo le sue speranze – “riattivare l’economia e la crescita”, o quantomeno “dar fiducia ai mercati e mostrare la solidità della nostra economia”.
La risposta dei sindacati non si è fatta attendere. Anche su questo fronte i “filo-governativi” della Cta e i peronisti delle due Cgt (“ufficiale” e “dissidente”) si sono mostrati assolutamente uniti: ma nel dichiarare lo sciopero generale contro il pacchetto della “cura Cavallo”. Oggi, invece, sciopereranno i diretti interessati al taglio salariale, i dipendenti pubblici. Anche questa insolita unità sindacale è un’assoluta novità politica nel recente panorama argentino, e testimonia della profonda rottura tra forze sociali e classe politica.
La situazione sociale, d’altro canto, è fortemente degradata. La città di Buenos Aires, agli occhi di chi riesce a vedere quasi soltanto il centro, sembra tutto sommato in discreta salute civile. Ma solo nella capitale sono stati calcolate in 100.000 che sopravvivono “differenziando” la raccolta della spazzatura. Quando scende la sera, a gruppi di ogni età, si gettano sui cassonetti della spazzatura per “selezionare” i rifiuti che possono essere rivenduti a peso ai riciclatori. Molto “ambita” la zona degli uffici, ricca di tanta carta “quasi nuova”. Non si sa invece quanti siano quelli che razziano i cassonetti dei ristoranti o dei McDonald’s semplicemente per trovarvi da mangiare. Fuori della capitale, nelle province del Nord, siamo invece alle immagini da centro-America. Strade sterrate, gente a piedi scalzi nel fango, la ressa intorno ai rari turisti per qualche spicciolo d’elemosina.
Anche le agitazioni sociali ricevono un trattamento militare diverso. I 50.000 che hanno manifestato contro la repressione dei tumulti nella provincia di Salta hanno potuto farlo in relativa tranquillità; a Salta, invece, vige ancora la legge marziale. La dichiarazione di sciopero generale, però, recepisce il rifiuto diffuso di pagare – e in questa misura – i costi delle politiche economiche volute dal Fondo monetario, accettate fin troppo supinamente dai governi succedutisi negli ultimi anni, e rivelatesi – ancora una volta – assolutamente fallimentari.
Sullo sfondo, come sempre, ci sono i militari, a metà strada tra l'”onta” di un processo tardivo e la tentazione di tornare protagonisti.