Sì ad un piano per la tregua. Ma da Nasrallah nuove minacce

Il primo ministro Fuad Siniora vive forse il momento più difficile da quando è iniziata la guerra con Israele. Chi ha avuto occasione di incontrarlo nelle ultime ore, dice di averlo visto amareggiato e un depresso. La grande tragedia umanitaria che sta sconvolgendo il Libano si vive attraverso le immagini che arrivano dai villaggi a sud di Tiro. La conquista – perché di questo si tratta – di un cessate il fuoco resta l´obiettivo principale.
Il nuovo no di Israele anche ad una tregua momentanea, di 72 ore, proposta da Kofi Annan è stata una doccia fredda. Il quadro è fosco, le prospettive nere. Come il denso fumo che avvelena da due settimane gli abitanti di Barja per l´incendio della centrale elettrica bombardata. Come le 35 mila tonnellate di greggio scaricate in mare che hanno inquinato 80 chilometri di costa. Ma i segnali che si registrano sul fronte diplomatico e sul piano politico interno libanese, aprono uno spiraglio di luce. Nella lunghissima riunione del Consiglio dei ministri di venerdì notte, Siniora ha ottenuto un risultato insperato. Sei ore di discussione, spesso aspra, hanno convinto anche i due ministri di Hezbollah e i due di Amal ad accettare la proposta di pace in sette punti che sarà affidata ai mediatori internazionali. Il documento approvato parla di scambio di prigionieri attraverso la mediazione del comitato della Croce rossa internazionale; del ritorno dei rifugiati nelle loro regioni; di restituzione delle Fattorie di Shebaa da affidare alla giurisdizione delle Nazioni unite; di consegna delle mappe con le zone minate al sud; di estendere l´autorità del governo in tutto il territorio nazionale; di spiegamento delle forze armate libanesi fino ai confini israeliani; di rafforzamento del contingente Unifil. Secondo osservatori e analisti, mai prima d´ora il partito di Hassan Nasrallah aveva accettato l´idea di affidare all´Onu le Fattorie di Shebaa. Se la Siria le rivendica, ma solo verbalmente, il Libano le considera sue sin dal 1967. La rivendicazione di quelle terre è soprattutto la causa della presenza delle milizie di Hezbollah nel sud del paese.
Fuad Siniora lo ha detto chiaramente durante il suo intervento alla Conferenza internazionale di Roma. Oltre ad essere un partito ufficiale e non clandestino, con 14 deputati e due ministri nel governo, Hezbollah si è schierato lungo i confini a sud del paese. La maggior parte della classe politica libanese, anche i più forti oppositori, spiegano che il «Partito di Dio» è l´effetto e non la causa di questa guerra. Restituire Le Fattorie di Shebaa, quasi 50 chilometri quadrati di terra, farebbe venir meno questa esigenza difensiva. La presenza di una milizia nel sud non avrebbe più senso. Il braccio armato del partito di Nasrallah a quel punto si dovrebbe sciogliere per confluire nell´esercito nazionale libanese. Affrontare il tema delle Fattorie di Shebaa significa toccare uno dei veri nodi di un conflitto che dura da 40 anni. E il fatto che Hezbollah abbia accettato l´idea di affidare alla giurisdizione Onu il territorio conteso viene visto come un segnale importante. Anche se ieri il tono del messaggio tv del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah è stato molto duro ed è tornato a minacciare di colpire «le città nel centro di Israele se la feroce aggressione contro il nostro Paese, la nostra gente e i nostri villaggi continuerà», qualcosa anche nel Partito di Dio si sta muovendo.
Nel documento approvato venerdì sera non si accenna al disarmo di Hezbollah. Si parla di estendere l´autorità del governo su tutto il Libano e di dislocare l´esercito anche al sud. Ma l´una cosa prevede l´altra. È solo una questione di priorità nei passaggi del piano di pace. Siniora sa anche bene che non basta un documento per risolvere il problema Hezbollah. La debolezza del suo esecutivo deriva dal fatto che le decisioni, quelle vere, si prendono altrove (vedi Siria, Iran, Israele e Usa). Il Libano è solo una vittima da sacrificare. Per questo insiste per una nuova risoluzione Onu che applichi non quella indicata come la 1559, ma imponga l´armistizio del 1949. Se si vuole una pace duratura, fa capire, bisogna andare alle radici di un conflitto che dura da 40 anni.
E per farla rispettare, almeno nei primi tempi, il Libano ha bisogno di un esercito che non possiede. Il governo libanese sembra contrario ad una forza internazionale, come invece insistono gli Usa, Israele e la Ue. Qui viene vista come l´ennesima presenza di soldati stranieri che, al di là della loro composizione, finirebbero per creare nuove tensioni. Meglio allora rafforzare il contingente dell´Unifil. Con un mandato diverso e regole d´ingaggio diverse. Una forza «robusta» di interposizione, come invocano sia Usa sia Israele. Il tenente colonnello Salvatore Scalisi fino ad un anno fa ha comandato il contingente italiano: 52 uomini che pattugliano giorno e notte il confine a bordo di 4 elicotteri. Conosce bene la realtà libanese e soprattutto quella del sud. «Noi siamo pronti», ci dice, «sia in caso di rafforzamento dell´Unifil, sia per la forza multinazionale». Ma quando gli chiediamo quale sia la soluzione migliore, offre una risposta diplomatica che centra il nodo del problema: «È solo una questione di scelta politica».