«Sharon non è cambiato, la realtà sì»

Il direttore di New Perspectives Quarterly analizza le reazioni degli ebrei Usa al ritiro da Gaza

Nathan Gardels dirige da vent’anni New Perspectives Quarterly (Npq), una delle più prestigiose riviste americane di dibattito sui grandi temi politici e culturali internazionali. La rivista, che conta tra i consiglieri di amministrazione nomi noti come Oliver Stone e Michael Douglas, è fondata e presieduta da Stanley Sheinbaum, attivista pacifista ed eminenza grigia della sinistra liberal statunitense, nonché uno degli artefici di quell’azione di «diplomazia parallela» che portò ai primi incontri tra palestinesi ed israeliani ad Oslo, e ha sempre guardato con attenzione al conflitto medio-orientale. Gardels ha scritto in passato sul New York Times, Los Angeles Times, Washington Post, New York Review of Books ed ha lavorato in Cina, Russia, Svezia e Germania. Abbiamo fatto a Nathan Gardels alcune domande sulle reazioni al ritiro israeliano da Gaza negli Stati Uniti e nella comunità ebrea statunitense

Quali sono le linee su cui si è divisa la comunità ebrea americana?

Vorrei parlare prima di tutto dell’atteggiamento verso il ritiro e poi di come si divide la comunità. Credo che la maggior parte degli ebrei americani e degli americani in generale, quando pensa a questo problema, capisca molto bene quello che Shimon Peres ha detto di Ariel Sharon: «Non è che Sharon si sia svegliato una mattina e sia diventato una persona completamente nuova. Sharon si è svegliato in un `nuovo giorno’ e ha capito la realtà demografica di 1.3 milioni di palestinesi di Gaza». Sharon non è cambiato, la realtà è cambiata. Il problema non era se fosse difendibile o no dal punto di vista etico la presenza israeliana a Gaza, ma che Gaza era militarmente indifendibile. C’è quindi un consenso ampio su questo nell’establishement israeliano e anche in quello ebreo-americano, così come tra gli ebrei pacifisti americani. E c’è la convinzione condivisa che solo Sharon avrebbe potuto farlo. Le linee di frattura e di divisione non sono su questo, ma si verificano tra il campo dei pacifisti e gli altri che ritengono che l’apertura di Sharon debba fermarsi a Gaza e che non debba coinvolgere la Cisgiordania. Questo è il vero nodo. Il fronte pacifista, di cui uno degli esponenti più di rilievo è Stanley Sheinbaum, teme che questa mossa unilaterale di Sharon preluda ad un’assoluta chiusura sul futuro ritiro dalla Cisgiordania. Per l’altro campo questa è naturalmente la speranza e sullo sfondo c’è la convinzione che il «muro» funziona e che dà sicurezza a Israele e che quindi non ci sia da preoccuparsi più della West Bank. Quindi è intorno a quello che succederà in Cisgiordania che si dispongono le linee di rottura nella comunità ebrea in America.

C’è comunque una parte della comunità ebraica d’America che si oppone al ritiro, usando soprattutto l’argomento che il ritiro favorisce i terroristi perché dimostrerebbe che il terrore paga. Come gioca questo argomento tra gli americani, ebrei e non? Un sondaggio recente rileva che oltre metà degli americani sono contro il ritiro, proprio sulla base di questo argomento.

Certo, ci sono quelli che già chiamano Gaza «Hamas-tan», con un riferimento ai Talebani afghani. Ma io sono abbastanza scettico sul valore e la serietà di quel sondaggio. Non penso che l’opinione pubblica abbia un’idea stabilizzata su quello che succederà a Gaza. Ribadisco che uno dei punti importanti è la sensazione che il muro abbia funzionato nella difesa della sicurezza di Israele, che è la priorità numero uno per gli americani, ebrei e non. Per chi osserva più da vicino la situazione c’è inoltre la quasi certezza che i palestinesi saranno letteralmente affogati dalle questioni amministrative e politiche interne: si pensi a 1,3 milioni di palestinesi senza risorse e senza una leadership unita. Quello che probabilmente succederà, pensano molti, è che quando devono governare anche gli elementi più radicali e militanti perdono popolarità perchè devono prendere decisioni impopolari. Devono occuparsi di prezzi, di infrastrutture, di scuole e così via. Credo che questo faccia parte della scommessa di Sharon. Può esserci una paura che Hamas diventi egemone nell’area o che possa attaccare Israele, ma non credo che sia così diffusa.

Che influenza potrà avere tutta la questione del ritiro sulle politiche della Casa Bianca?

Credo che abbiano dato un sostegno sincero alla mossa di Sharon, come «mezzo passo» verso la pace. Del resto era una scelta facile, per una volta non hanno dovuto spingere Sharon. La questione cruciale, come detto, è quello che succede dopo. Inevitabilmente sarà molto più difficile fare pressioni su Sharon, dopo che lui ha fatto concessioni unilaterali come quella su Gaza. In qualche modo è lui adesso a controllare il «terreno di gioco». E francamente non vedo nessuno nell’amministrazione Bush che abbia davvero voglia di fare pressioni su Sharon.