Sharon il Nobel par la pace?

Le immagini dell’ evacuazione forzata dei coloni ebrei dalla striscia di Gaza hanno suscitato solo stupore in me. Come i commenti e le dichiarazioni della gente dotta e sicura di sé, che hanno accompagnato questo evento. Qualcuno in Italia lo ha paragonato alla fine dal razzismo in Sudafrica, qualcun altro ha candidato Sharon al premio Nobel.

Sono sciocchezze che, quando vengono da sinistra, ci spiegano il disagio del mondo che sembra senza via d’uscita e ci ricordano la pochezza della politica e la «banalità del male» che sembra sia diventata la regola del nostro tempo. Ma di che cosa stiamo parlando?

Gaza è una striscia di terra ai confini del deserto, lunga 36 chilometri e larga 10, una superfice di meno del 3% di quella che fu la Palestina, abitata da 1.2 milioni di palestinesi, per la maggior parte rifugiati già espulsi dalle loro case nel 1948 quando fu creato Israele. In questa terra si registra la più alta percentuale demografica e di disoccupazione al mondo. Le colonie ebraiche di cui si parla in questi giorni occupano il 30% di Gaza ed ospitavano meno di 7mila coloni ebrei. Un altro 15% del suo territorio è stato trasformato in fasce di sicurezza, autostrade alternative e zone militari per la protezione dei coloni. Questi sfruttano l’82% dell’acqua dolce per uso domestico e per annaffiare i loro prati e le serre all’avanguardia con tecniche olandesi. Tale sfruttamento ha provocato una massiccia infiltrazione salina nelle falde acquifere causando la morte di centinaia di ettari di agrumeti e malattie renali nella quasi totalità degli abitanti. In nome della loro sicurezza sono state demolite più di 20mila case palestinesi e sradicate decine di migliaia di alberi da frutta. C’è un senso in tutto questo?

Gaza è solo un capitolo della storia, della sofferenza e delle angherie che hanno subito i palestinesi negli ultimi 60 anni. Ha disegnato l’altra faccia della medaglia, che è la genesi e la storia dello stato ebraico in Palestina e ha determinato le sue dinamiche e la mentalità collettiva nei suoi abitanti, negli aspiranti cittadini e nei sostenitori .

Contro ogni evidenza la Palestina è rimasta una terra senza popolo anche quando le ruspe distruggono le sue città e quando le mani israeliane sono macchiate dal suo sangue. Gli israeliani sono circondati dai campi dei rifugiati espulsi dalle terre che essi abitano ma non hanno occhi per vedere né orecchi per sentire. La «inferiorità» degli altri in nome di una elezione divina, di cui sono stati vittime per secoli, ha rimosso qualsiasi senso del limite.

E’ su questo che bisogna riflettere, su ciò che l’iniziativa di Sharon non sfiora, ma rinvigorisce quando parla del «sogno interrotto a Gaza», che presto riprenderà con l’accelerazione della colonizzazione in Cisgiordania.

Quanto tempo, vite umane, innocenze e coscienze dobbiamo ancora perdere per capire che siamo giunti a dimensioni che non permettono scorciatoie, che il senso di responsabilità non è semplicemente l’astuzia di un capo senza scrupoli, che la vita precede lo stato e che la barbarie chiama altra barbarie? Non ho provato passione né commozione di fronte alle lacrime versate e alle reazioni isteriche dei coloni, ma stupore, angoscia e paura per ciò che è diventato Israele e, di conseguenza, il mio popolo. E di fronte a ciò che potrà ancora avvenire.

La nostra è una realtà di morte, perché promette solo guerra e morte e mette una speranza contro un’altra speranza.

E’ ora di leggere l’unità del nostro destino tenendo in vista l’uomo vivo e non la realtà morta.

* Primo segretario della Delegazione palestinese in Italia