Sfida francese

Ieri la Francia ha vissuto una memorabile giornata di scioperi e manifestazioni, fra le più importanti dal grande movimento del 1995. Una mobilitazione dovuta certo al contenuto del Contratto di primo impiego (Cpe), che vorrebbe imporre ai giovani lavoratori un periodo di prova di due anni durante il quale potrebbero essere licenziati senza motivo e senza indennità di disoccupazione, traduzione francese della precarizzazione del lavoro che dilaga ovunque. Ma le piazze francesi si sono riempite con la folla delle grandi occasioni anche per protestare contro l’ottusità del potere. Alla stragrande maggioranza dei liceali e degli universitari che esige il ritiro del Cpe, si è aggiunta la presenza, sempre più cospicua dei giovani delle periferie, la cui rivolta ha dato avvio alla resistenza nell’autunno scorso. Tutti i sindacati operai rifiutano Cpe, ribattezzato «contratto di precarietà ed esclusione». I sondaggi dicono che una percentuale di francesi stimata tra due terzi e tre quarti appoggia il movimento. Eppure il governo rifiuta ostinatamente di ritirare una legge che ha fatto votare al Parlamento senza discussione. Un’arroganza insopportabile, ostentata dal 2002. Allora, l’82% dei francesi, sconvolto dalla presenza inedita dell’estrema destra al secondo turno delle presidenziali, pur di evitare Jean-Marie Le Pen, aveva rieletto Jacques Chirac. Quei cittadini pensavano che un consenso così ampio trasversale avrebbe potuto pesare sulle scelte politiche dell’Eliseo. Ma così non è stato. A ogni tentativo di riforma neoliberista, la stessa scena: sulle pensioni, sulla sanità pubblica, sulla scuola, e ora sul Cpe, i primi ministri scelti dal presidente hanno tentato la prova di forza. A nulla sono servite le manifestazioni, i sondaggi, neanche le elezioni, peraltro tutte perse dalla destra, a cominciare dalle regionali e dalle europee della primavera 2004, e fino al referendum del 2005. Tutto questo non ha impedito alla destra e a chi a sinistra sostiene più o meno queste riforme, di intestardirsi su dei progetti minoritari. Costoro sembrano ciechi e sordi, ma niente affatto muti: per giustificare il loro comportamento tengono banco sui media. Un così grande e sovrano disprezzo per le più elementari regole di democrazia, serve certo a rispondere alle esigenze del padronato francese, che considera la «flessibilità come un obbligo. Ma va notato che ora, Laurence Parisot, presidente della Confindustria francese, raccomanda di cercare un compromesso che faccia ingoiare la pillola ai più moderati fra gli oppositori del Cpe. Se Dominique de Villepin appare più intransigente di chi lo finanzia, è soprattutto per ragioni politiche. Un cedimento, infatti, aiuterebbe il rivale Nicolas Sarkozy a imporsi come candidato della destra alle presidenziali del maggio 2007. E fornirebbe al movimento popolare maggior forza e coraggio per pesare su questa scadenza. Simili calcoli politici avranno la meglio sul chiaro segnale che ha fornito ieri la Francia della gioventù e del lavoro? Ostinandosi a scommettere sul marcio, il capo del governo rischierebbe di accelerare la propria caduta. E non sarebbe il primo ad aver sottovalutato la resistenza dei francesi. DOMINIQUE VIDAL Giornalista Le Monde Diplomatique