Avete presente cos’è un grammo di diossina? Polvere, polvere invisibile.
Nel reparto B dell’Icmesa si produce il triclorofenolo. Si rompe la valvola di sicurezza e la temperatura sale tra i 350 e i 500 gradi. E allora… cosa succede al triclorofenolo quando la temperatura raggiunge questi livelli così elevati? Succede che…. si trasforma.
Il 10 luglio 1976, all’Icmesa si è formata la diossina più tossica tra quelle conosciute nella chimica: Tetraclorodibenzop-diossina (Tcdd). Le sue proprietà sono devastanti, i danni sono irreversibili. Una sostanza che danneggia tessuti grassi, fegato, reni, sistema cardiocircolatorio e nervoso centrale. La Tcdd è cancerogena ed ha proprietà mutagene. Interviene sul corredo cromosomico degli individui e sui feti, diminuisce la fertilità e la capacità riproduttiva, produce difetti alla nascita e danni embrionali. Influisce sul patrimonio immunitario degli individui. Un solo grammo di diossina può contaminare migliaia di persone.
La diossina rimane lì, nel reattore dell’Icmesa. Bisogna smaltirla. Subito e….. in silenzio.
L’operazione è guidata da Luigi Noè, vicepresidente dell’Enea e responsabile dell’ufficio speciale di Seveso. Con lui lavorano gli uomini della Mannesmann, alla quale la Givaudan affida l’incarico di trasferire la diossina. A questo punto della storia, compare in scena il vero protagonista di questa tragica messinscena. Bernard Paringaux.
Lui è francese. Si occupa da tredici anni di eliminazione e distruzione di rifiuti industriali. Conosce bene le industrie europee che operano nel settore, le disposizioni legislative di ogni stato. Ma è legato ai servizi segreti. Paringaux deve ora cercare una soluzione immediata. Perché il tempo…… stringe.
Novembre 1981. Paringaux giunge in Italia di nascosto per studiare il problema. Si aggira in incognito nei pressi di Meda e Seveso. Poi entra all’Icmesa e verifica i materiali inquinati che dovrà far sparire. Torna in Francia e prepara un progetto che propone alla Mannesmann.
Noè e i vertici della Givaudan sono al corrente del piano di Paringaux. Per non sbagliare viene redatto uno studio di fattibilità il 3 maggio 1982. Il progetto di Paringaux viene approvato dallo studio Wadir e timbrato dalla Mannesmann. Tutto secondo le regole internazionali. Nulla di illegale.
Qui, proprio qui, inizia il viaggio dei fusti. 10 settembre 1982. Le 6 del mattino. All’Icmesa arriva un camion. Operai in tuta bianca e mascherine protettive caricano 41 fusti. Il contenuto è descritto nelle bolle di accompagnamento: «150 tonnellate di residui solidi e scarti industriali contenenti prodotti aromatici clorurati come Tcdd, Tcdf e Tcb provenienti da Meda».
Luigi Noè guida la spedizione. Verso la frontiera di Ventimiglia. Nel tardo pomeriggio l’operazione è conclusa. I fusti sono ora nelle mani di Paringaux. Pochi giorni dopo. Paringaux comunica di aver sistemato i fusti in un magazzino in Francia. Intende trasferirli in una discarica controllata in Europa.
19 maggio 1983. La Hoffmann La Roche mostra fusti ad Anguicort-Le Sart vicino a San Quentin in Francia. Due anni dopo a Basilea la Hoffmann La Roche smaltisce i 41 fusti davanti alle telecamere e alla stampa di tutto il mondo. Ma c’è qualcosa di strano. I fusti, come gli uomini, dimagriscono e ingrassano. Sembra incredibile ma è andata proprio così.
Al momento della partenza, i fusti hanno un diametro di 60 centimetri e pesano complessivamente 6 tonnellate e mezzo. Paringaux li fa trovare a Basilea e …. sono più piccoli e più pesanti. Il loro diametro misura 56,5 centimetri. 3 centimetri e mezzo in meno. Dei nani. Ma Paringaux è un vero prestigiatore. I 41 fusti vengono pesati e….. sono ingrassati di 20 quintali.
Com’è possibile? Per comprendere cosa è accaduto compiamo un passo indietro. 30 agosto 1982. Riunione straordinaria in Regione. Sul tavolo sono seduti Luigi Noé, dirigenti dell’Icmesa e della Mannesman e naturalmente il prestigiatore Paringaux. C’è una piccola variazione al progetto iniziale. Dice Bernard Paringaux: «Mi chiesero di anticipare i tempi, eseguire un primo prelevamento…avevano fretta, bisognava fare presto…». Poi preciserà meglio davanti alla commissione di inchiesta regionale su Seveso. «Dovevo anticipare i tempi, avevano fretta…».
9 settembre 1982, un giorno prima del viaggio verso la frontiera di Ventimiglia. Le 6 del pomeriggio. Paringaux arriva all’Icmesa e carica 82 fusti, 41 con le scorie di Seveso, 41 con rifiuti innocui. I fusti falsi prendono la strada per San Quentin in Francia dove ha sede una ditta di Paringaux, mentre i fusti veri, quelli che nascondono diossina, proseguono il viaggio, attraversano la Francia, la Germania Ovest e terminano la loro corsa nella discarica di Schomberg, Germania dell’Est.
A questo punto Paringaux trasferisce i fusti falsi ad Anguicort-Le Sart, vicino a San Quentin e aspetta. Inizia il suo braccio di ferro. Vuole soldi. Finalmente, dopo qualche trattativa, giunge l’accordo. Paringaux riceve una grossa somma di denaro ed il 19 maggio 1982 fa ritrovare i 41 fusti finti ad Anguicort-Le Sart. Nel 1985, la Hoffmann chiude la farsa. O meglio, crede di aver chiuso la farsa. Perché i documenti di viaggio fanno emergere menzogne e falsità. Per nascondere…. il mistero di Seveso.
Avete presente cos’è un grammo di diossina? Polvere, polvere invisibile. All’Icmesa si produce tricolorofenolo, un disinfettante ospedaliero. Così almeno sostiene l’azienda. Ma la sostanza è instabile. Oltre i 153-156 gradi si trasforma. Man mano che la temperatura sale produce una quantità sempre maggiore di diossina. Nella fabbrica il manometro è bloccato sui 200 gradi. Sempre e comunque. Non scende mai sotto quella temperatura. Vuol dire che il triclorofenolo che viene prodotto dal 1969 al 1976 all’Icmesa è sporco, inquinato di sostanze tossiche e non può essere impiegato come disinfettante ospedaliero.
Ci sono le prove. Sono contenute nell’archivio dell’Ufficio Speciale di Seveso, nascosto dal 1976 al 1992 in un sotterraneo del Palazzo Pirelli, sede della Regione Lombardia. Migliaia di fogli, stipati in centinaia di faldoni, ordinati in modo minuzioso, protocollati da numeri progressivi in codice e catalogati all’interno di un vecchio computer. C’è una corrispondenza tra il direttore dell’Icmesa Paoletti e i dirigenti di Givaudan e La Roche. Il giorno dell’incidente non sono usciti 300 grammi di diossina. Molto di più. Tra i 15 e i 18 chilogrammi.
L’azienda è a conoscenza dell’entità del disastro fin da sabato 10 luglio 1976. Nei giorni successivi all’incidente, funzionari dell’esercito americano raggiungono Seveso. Realizzano prelievi in una zona estesa. La contaminazione è rilevante e coinvolge gran parte della Lombardia. Poi emerge un documento inquietante siglato Nato. Il tricolorofenolo dell’Icmesa è uno dei due componenti del cosiddetto Agent Orange, il defoliante utilizzato dall’esercito americano nella guerra del Vietnam. Non una produzione legale, ma un’arma chimica. Incidente fortuito oppure dovuto ad una produzione di sostanze pericolose, tossiche, destinate alla guerra chimica?
E’ il mistero che ancor oggi circonda il disastro. Dice oggi Jorg Sambeth, direttore tecnico della Givaudan di Ginevra: «L’Icmesa veniva chiamata “Dreckfabrik”, (fabbrica sporca), ben prima della catastrofe. Questo perché non si erano fatte le opere di sicurezza e di modernizzazione normalmente richieste, i controlli erano evitabili… così il reattore per il triclorofenolo era sprovvisto di un meccanismo di sicurezza che non facesse salire la temperatura oltre i 170°… l’esplosione del reattore è avvenuta sabato, quando la fabbrica era ufficialmente chiusa… la produzione di una variante del triclorofenolo, che serve per l’Agente Orange è un’erbicida vietato perché usato per bombardamenti bellici, richiede una temperatura superiore a 170°».
Sambeth ricompone i tasselli e arriva ad una conclusione. Nella “Dreckfabrik” durante i fine settimana ci potrebbe essere stata, di nascosto da tutti, una produzione di materiale illegale, ma richiesta da più parti… per armi chimiche. A distanza di 30 anni vi è una giustizia penale, solo parziale. Ma la Corte di Cassazione ha dato ragione agli abitanti della zona che chiedevano di essere risarciti per danni morali e fisici. Leggo un passo dalla sentenza civile del 2002: «In caso di compromissione dell’ambiente a seguito di disastro colposo, il danno morale lamentato dai soggetti che si trovano in una particolare situazione (in quanto abitano e/o lavorano in detto ambiente) e che provino in concreto di avere subito un turbamento psichico (sofferenze e patemi d’animo) a causa dell’esposizione a sostanze inquinanti ed alle conseguenti limitazioni del normale svolgimento della loro vita, è risarcibile autonomamente anche in mancanza di una lesione all’integrità psico-fisica (danno biologico di altro evento produttivo di danno patrimoniale), trattandosi di reato plurioffensivo che comporta, oltre all’offesa all’ambiente ed alla pubblica incolumità, anche l’offesa ai singoli, pregiudicati nella loro sfera individuale». Chi inquina non resta almeno impunito.
Trent’anni dopo Seveso le cose stanno cambiando. Cittadini, sindacati, imprese. La loro coscienza ambientale è maggiore. Ma spesso manca la volontà politica. Oggi si può e si deve fare di più. Ci sono leggi europee ed italiane che obbligano aziende e amministrazioni pubbliche ad informare le persone sui rischi ambientali.
Si chiamano Seveso 2 e Seveso 3. Sono direttive, regole. Valgono per tutti. Un cittadino può chiedere al proprio comune di residenza le informazioni su uno stabilimento chimico ad alto rischio ambientale insediato sul suo territorio: la produzione, le tipologie degli impianti, le misure adottate per ridurre la possibilità di incidenti. Un lavoratore può conoscere nei dettagli le misure di sicurezza e di prevenzione, i piani di emergenza interni ed esterni, le sostanze pericolose presenti nello stabilimento, materie prime, prodotti, sottoprodotti, residui.
Un’azienda chimica ad alto rischio ambientale dovrà rispettare le regole.
Come l’articolo 5 della Seveso 2. «Il gestore è tenuto a prendere tutte le misure idonee a prevenire gli incidenti rilevanti e a limitarne le conseguenze per l’uomo e per l’ambiente, nel rispetto dei principi del presente decreto e delle normative vigenti in materia di sicurezza ed igiene del lavoro e di tutela della popolazione». Non potranno più esserci giorni del silenzio. Oggi basta solo.. applicare le leggi. Lo possiamo fare, è un nostro diritto.
Seveso 10 luglio 1976. Trent’anni dopo. Per non dimenticare
*Daniele Biacchessi, giornalista e scrittore, caposervizio Radi024, è autore de “La fabbrica dei profumi” (Baldini&Castoldi, 1995). Questo testo è parte del reading di teatro civile, da lui interpretato con il sassofonista Michele Fusiello, ispirato al libro.