Settimi al mondo per spese militari diciottesimi per sviluppo umano

La lobby militare è forte, trasversale agli schieramenti politici, con solide alleanze industriali. Per scoprirlo basta fare due conti. Economicamente l’Italia non è più tra le otto potenze del mondo, ma per le spese militari un posto al G8 è assicurato.
Settimi al mondo con 27,8 miliardi di dollari nel 2004 (diciottesimi per sviluppo umano), spendiamo più di Russia, India e Canada: 484 dollari pro-capite a fronte dei 411 della Germania e dei 332 del Giappone. Francia e Gran Bretagna ne spendono più di 700, ma se confrontiamo i nostri 545 euro anno per l’assistenza sociale (maternità, handicap, disoccupazione, edilizia popolare) con i loro 1500 e passa, capiamo perché. Si chiama peso dello Stato, ruolo pubblico o come volete, forze armate incluse. Noi invece, vogliamo sederci alla pari ai tavoli Nato ma non siamo in grado di rispondere ai bisogni elementari della gente. Abbiamo conti disastrati, ci mancano infrastrutture primarie e persino i servizi di prevenzione del crimine organizzato e della magistratura sono in profondo rosso, ma i soldi per i generali si trovano sempre.

Nella finanziaria 2006 il bilancio della Difesa è cresciuto di 477 milioni di euro, più un miliardo in riserva per le missioni all’estero (600 milioni per l’Iraq), finanziate in realtà all’80% dall’otto per mille con uno storno in barba agli obiettivi prefissati dalla legge. Si dice che l’Italia spenda tutto in stipendi e pensioni, non proprio. Ad esempio, abbiamo speso 6 miliardi tra 2002-2003 con l’avvio della commessa della portaerei Andrea Doria e 18 miliardi li spenderemo entro il 2015 per 121 caccia eurofighter. Ma i militari piangono: «E’ solo l’1,5% del Pil», anche se la Nato dice che siamo al 2%. La differenza è presto detta: nel bilancio del ministero della Difesa non sono contate le missioni, lo sviluppo degli armamenti (a carico del ministero Attività produttive), gli investimenti statali a favore dell’industria militare e il costo dei carabinieri in servizio solo militare. Vero è che la quota di Pil percentuale è stabile da anni, ma è cresciuto l’ammontare: Prodi nel 1997 spendeva 16 miliardi di euro. Quello di cui si lamentano le nostre stellette è il divario con il mondo occidentale in pieno riarmo. Dei mille miliardi di dollari in spese militari del 2004 (162 dollari a testa, mentre decine di milioni di uomini e donne vivono con meno di un dollaro al giorno), la metà sono degli Usa, con Gran Bretagna e Francia a inseguire da lontano. Per questo “gap” l’industria armiera europea si è inventata un’Agenzia europea per la Difesa (non vi partecipa la Danimarca) e un futuro centro di ricerca per gli armamenti.

Difficile a credersi, ma chi davvero ha messo in allarme i militari per una riduzione delle spese è stato il governo Berlusconi che aveva ipotizzato un taglio per la finanziaria 2006. Ed è stata una levata di scudi bi-partisan: «Mai nella storia repubblicana il rapporto tra funzione difesa e Pil era sceso sotto l’1%», tuonava Marco Minniti (Ds) nel novembre scorso. Con tanto di promessa di Piero Fassino, in caso di vittoria dell’Unione alle elezioni, «di segnare fin da questa finanziaria una piccola inversione di tendenza». Insuperabile, invece, Berlusconi come piazzista dell’industria militare italiana, in cinque anni ha aiutato una crescita del 70% delle autorizzazioni all’esportazione di armi rilasciate dal Governo. «Gli acquirenti sono al 45% Paesi del Sud del mondo e aree calde del pianeta», scrive Giorgio Beretta della rete per il Disarmo. Tra i primi dieci acquirenti Turchia, India, Singapore, Egitto, Oman, Emirati arabi e Pakistan. Di moda anche la cooperazione militare che traina l’export e appalti a cascata con accordi negli ultimi tre anni con Lituania, Romania, Bulgaria, Croazia, Uzbekistan, Georgia, Egitto, Gibuti, Giordania, Kuwait, Indonesia, Algeria e Israele.

Eppure, come calcola la campagna Sbilanciamoci nella sua “controfinanziaria”, basterebbero pochi secchi tagli per ricavare 5 miliardi di euro, per lo sviluppo umano e la cooperazione di pace, con l’abolizione del fondo di riserva per le missioni all’estero, il taglio dei fondi per l’ammodernamento d’arma e per la professionalizzazione dell’esercito (con riduzione degli effettivi da 190mila a 120mila). Con una tassa sull’export d’armi, l’aumento dell’aliquota sul porto d’armi e altre facezie ci sarebbe un altro mezzo miliardo di entrate supplementari. Un po’ d’ossigeno per i conti pubblici. E se proprio volete “truppe” da mandare in giro per il mondo, si potrebbero formare e finanziare i corpi civili di pace per l’intermediazione e il dialogo. Tutta roba che fa accapponare la pelle allo Stato maggiore e al “suo” presidente della Commissione Difesa del Senato.