Settimana di fuoco per la Bolivia

Il paese è paralizzato, il presidente Mesa stretto da destra e da sinistra, la chiesa cerca di mediare
Il gas ma non solo Al centro il problema del gas. E dietro le pulsioni separatiste della ricca Santa Cruz. C’è chi invoca un «militare patriota alla Chavez»

La Bolivia scoppia di nuovo, e non solo per il gas. Scoppi che nel paese con il record mondiale dei golpe (191 nei 180 anni dall’indipendenza del 1825) non sono una novità ma che ogni volta si avvicinano di più al punto di rottura. La Bolivia da un paio di settimane è tornata nel pieno del caos. Sono a rischio la sua fragile struttura politica ma anche la sua struttura nazionale. Il presidente Carlos Mesa andò al potere nell’ottobre del 2003, quando il neo-liberista filo-Usa Carlos Sanchez de Lozada, detto «el Gringo» dovette dimettersi e fuggire in fretta e furia a Miami dopo che la «guerra del gas» (che veniva dopo la «guerra dell’acqua») aveva provocato una rivolta popolare costata una settantina di morti. Mesa era il vice del “Gringo”, ma aveva preso le distanze quando la truppa aveva cominciato a sparare sulla folla. Era un indipendente, e questo era la sua forza ma anche la sua debolezza. Assumendo l’incarico si impegnò a rispettare la «agenda di ottobre», costituita da tre impegni più uno. La nazionalizzazione del gas – l’ultima risorsa che rimane alla Bolivia dopo il saccheggio dell’argento, del salnitro e dello stagno – che Sanchez de Lozada aveva svenduto a una ventina di transnazionali; l’assemblea costituente che riscrivesse i principi di un paese popolato dal 80-90% di indiani e di cholos (i meticci) sempre tenuti in regime di apartheid; il referendum sull’autonomia, che avrebbe dovuto calmare le pulsioni separatiste dell’oligarchia petro-terrateniente di Santa Cruz; e in ultimo, come sempre incombente, il problema dell’accesso al mare, l’ossessione boliviana dopo che nella Guerra del Pacifico del 1879 perse il litorale a favore del Cile.

Un anno e mezzo dopo, nessuno di quegli impegni è stato mantenuto. Nel luglio del 2004 Mesa ha indetto un referendum sul gas – di cui la Bolivia ha i maggiori gicimenti dell’America latina -, ma anziché un semplice quesito – sì o no alla ri-nazionalizzazione -, ne ha presentati 5, ambigui e complicati. La nuova legge sugli idrocarburi votata infine nel marzo scorso, riflette quelle ambiguità. Nessuna nazionalizzazione, nonostante il voto quasi plebiscitario, ma solo l’elevazione della quota delle imposte e royalities dal 18 al 50%. Tutti insoddisfatti, le transnazionali, che minacciavano esodi e cause legali, e i settori popolari e di sinistra, che minacciavano – e hanno subito ripreso – le mobilitazioni.

Adesso è arrivata la nuova stretta. Giovedì, di fronte alla scndalosa impotenza del Congresso e alla rivolta popolare che ha paralizzato il paese (a cominciare da La Paz e El Alto, il terribile agglomerato povero che domina la capitale dall’altipiano), Mesa ha emanato un Decreto supremo con cui sperava di rispondere ad almeno due dei quattro punti dell’agenda di ottobre e quindi di calmare le pressioni. Il decreto fissava per il 16 ottobre il voto per la costituente (che dovrebbe affrontare anche il problema del gas…) e per l’autonomia. Ma la mossa non è servita. «Troppo tardi», ha detto Jaime Solares, leader della Cob, la Central Obrera Boliviana. «Non ha i poteri costituzionali per farlo», ha detto Evo Morales, il leader del Mas, il Movimiento al Socialismo, e il candidato favorito per le presidenziali del 2007 (se ci si arriverà…). Per cui gli scioperi, i blocchi stradali e l’invasione di La Paz (dove comincia a scarseggiare la benzina) continuerranno. Picche anche da Santa Cruz: «il nostro referendum è fissato per il 12 agosto: lo confermiamo e avrà carattere vincolante», ha fatto sapere il Comité pro Santa Cruz, che vede come il fumo negli occhi le posizioni anti-globalizzazione e anti-libero mercato degli «andini» dell’altipiano e ha una gran voglia si staccarsi definitivamente dal resto della Bolivia trascinandosi dietro tutti i dipartimenti dell’oriente.

La situazione è critica. A tal punto che venerdì un gruppo di manifestanti (e non «di destra» ma «di sinistra» con tanto di bandiere della Cob e delle organizzazioni indigene) si sono presentati al quartier generale delle forze armate, a La Paz, chiedendo a gran voce un golpe militare. Solares stesso ha invocato «un militare patriota», tipo il venezuelano Hugo Chavez, per garantire «l’integrità nazionale» e la nazionalizzazione del gas. Un’ora dopo l’Alto comando delle forze armate ha dovuto confermarein una conferenza stampa «la lealtà alla costituzione e al potere civile». A quel punto è entrata in scena la Chiesa cattolica per tentare una estrema mediazione. Il cardinale Julio Terrazas ha convocato per ieri, a Santa Cruz, il potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Ma a patto che «tutti rinuncino all’intransigenza e alla violenza». Difficile. Fra le voci di sindacati, partiti e imprenditori che esigono la rinuncia di Mesa e le voci ricorrenti di golpe, la prossima settimana in Bolivia si annuncia di fuoco.