E’ un esercito che monta, che si ingrossa anno dopo anno. A termine, a progetto, in leasing, nel settore pubblico ancor più che nel privato, i lavoratori precari italiani sono all’incirca quattro milioni. In termini di minori retribuzioni, di assenza di coperture previdenziali, di ferie, malattie e maternità non pagate, essi costano fino al 50% in meno rispetto alle retribuzioni medie previste dai contratti a tempo indeterminato. A questi si aggiungono poi i cosiddetti “invisibili”: dalle manovalanze in nero del Mezzogiorno agli immigrati sottoposti al ricatto del permesso di soggiorno, si contano almeno altri tre milioni di individui, sulle cui infime medie salariali si può tuttora solo congetturare. Il precariato è insomma divenuto un fenomeno impressionante, per la sua dimensione assoluta e per i suoi ritmi di crescita. E’ un fenomeno che in Italia presenta tassi di espansione eccezionali, ma che di fatto investe in modo pressoché uniforme tutta l’Unione europea. Nel corso dell’ultimo ventennio, infatti, le legislazioni del lavoro dei vari paesi membri si sono mosse in concerto, verso il restringimento della durata dei contratti e delle relative tutele.
In vari modi hanno cercato di addolcire l’amara pillola del precariato. Per anni, i venerabili maestri dell’ortodossia liberista si sono spesi nel tentativo di suggerire un legame tra la precarietà del lavoro e l’incremento dei più svariati indici di efficienza economica. All’inizio era sembrata un’operazione ideologica tra le più agevoli. Una di quelle per le quali vale la vecchia massima secondo cui i dati economici, se torturati a sufficienza, alla fine potrebbero arrivare a dire esattamente ciò che gli si vuole far dire. Eppure sul precariato non è andata così. Persino una istituzione partigiana del liberismo come l’OCSE ha dovuto a un certo punto arrendersi all’evidenza: la precarizzazione del rapporto di lavoro non sembra aver determinato alcun effetto di rilievo sull’efficienza tecnica del sistema, né sul versante della produttività oraria né tanto meno su quello della produzione in generale. Se è vero infatti che in assenza di tutele normative e sindacali i lavoratori devono mostrarsi più docili, è altrettanto documentato che in simili circostanze essi hanno una maggiore propensione ad imboscarsi, a sabotare, ad agire cioè sotto traccia nei confronti di un padrone con il quale non è più possibile confrontarsi alla luce del sole. La conseguenza è un aumento dei costi di monitoraggio e l’accentuarsi delle tensioni sotterranee nel processo produttivo, con risultati del tutto incerti e altalenanti sul piano della produttività del lavoro. E d’altra parte con questa manna del lavoro precario a prezzi stracciati gli imprenditori si guardano bene dall’investire in ricerca e sviluppo, finendo col puntare tutte le carte della competitività d’impresa proprio sul taglio dei costi, sulla crescita dello sfruttamento, e non certo sui rischiosi investimenti e sulle innovazioni di processo e di prodotto. Riguardo poi agli effetti benefici che la diffusione del precariato avrebbe dovuto sortire sui livelli generali di produzione e occupazione, anche qui il nesso appare incerto e comunque indiretto, ossia politico anziché tecnico. Si rileva infatti una maggiore disponibilità delle istituzioni monetarie ad erogare credito e a favorire lo sviluppo solo nel momento in cui la precarizzazione abbia definitivamente sedato il conflitto sociale. E’ questa in fondo la differenza chiave tra le prestazioni del vecchio e del nuovo continente. Il banchiere centrale europeo ha infatti dichiarato che il momento per aprire i rubinetti non è giunto. Agli occhi del massimo tecnocrate dell’Unione monetaria la precarietà appare dalle nostre parti ancora poco diffusa e le tutele risultano ancora troppo estese. Il rischio che la crescita porti ad una ripresa delle rivendicazioni sembra dunque tuttora eccessivamente alto. Meglio pertanto insistere per qualche anno con ulteriori strette monetarie, con gli alti tassi d’interesse in rapporto alla crescita nominale e con le conseguenti restrizioni dei bilanci pubblici. Lungo questa via crucis, prima o poi anche le ultime resistenze sindacali e politiche alla “totalizzazione del precariato” cadranno. Solo allora la politica monetaria potrà finalmente allentare il laccio al collo del sistema produttivo europeo, senza più rischi di tensioni inflazionistiche. Solo allora l’Europa potrà dirsi davvero americanizzata.
Si comprende dunque perché in questi anni la precarizzazione del lavoro e la politica economica ispirata ai tagli e al rigore siano state due facce della stessa medaglia. E si capisce anche perché le azioni di contrasto nei confronti della restaurazione capitalistica in atto dovrebbero sempre, necessariamente, operare su entrambi i fronti.
E’ per questo allora che la manifestazione di oggi lancia, di fatto, un duplice messaggio: contro la precarietà, ma anche per un vigoroso cambio di rotta negli indirizzi di finanza pubblica. Ed è per questo che la proposta di una nuova e diversa legislazione del lavoro, di cui si è parlato in queste settimane, appare difficilmente conciliabile con le politiche di abbattimento del debito pubblico e di restrizione della spesa che una parte della maggioranza sta cercando di imporre al resto della coalizione.
Una nuova legislazione del lavoro, che non venga adeguatamente finanziata al fine di spostare in avanti il vincolo macroeconomico e commerciale, potrebbe rivelarsi uno strumento insufficiente per gli alti scopi che si prefigge. Mentre invece, una volta rifornita delle necessarie risorse pubbliche e collocata nel quadro di una rilanciata politica delle infrastrutture, dell’industria e del territorio, la medesima legislazione potrebbe di fatto costituire i presupposti per l’avvio di una politica economica alternativa, fondata su una diversa gestione del debito pubblico e di un rapporto più dialettico e costruttivo con l’Europa. E potrebbe inoltre favorire il tanto atteso processo di sviluppo dimensionale delle imprese nazionali. Vale a dire l’unica, vera riforma strutturale di cui questo paese ha urgente bisogno.
Per queste ragioni, è necessario che nell’immediato la sinistra si opponga al messaggio lanciato dai banchieri, da Draghi a Trichet, secondo i quali l’iter parlamentare non dovrà in alcun modo ammorbidire la linea di rigore contenuta nella finanziaria. Ed è palese che una reale opposizione nei confronti di simili influenze potrà derivare da una ben precisa iniziativa politica: denunciare il carattere surrettiziamente autoritario delle ipotesi di blindatura della finanziaria, per consentire al Parlamento di discutere davvero e di riassumere piena sovranità sulla decisione repubblicana per eccellenza, la legge di bilancio dello Stato.
Oggi è bene dunque marciare su due fronti, sulla base di una generale consapevolezza dei legami che uniscono le politiche del lavoro e le politiche economiche. Trascurare queste connessioni significherebbe reiterare i più classici e madornali errori compiuti dalla sinistra nel corso dell’ultimo ventennio. Così come risulterebbe deleterio assecondare l’assenza di progettualità che spesso ha caratterizzato l’azione politica e sindacale degli ultimi tempi. La situazione è invece talmente drammatica che occorre voltare pagina. Occorre cioè assumere un’ottica di sistema, a partire dalla congiunzione tra nuova legislazione del lavoro e nuova politica della finanza pubblica. E’ questo il messaggio forte e chiaro che la sinistra italiana deve lanciare. Ai delusi elettori del centro-sinistra, al paese e all’Europa intera.