Privatizzazioni ultimo atto. Dopo la sbornia liberalizzatrice degli anni ’90, dopo i casi Telecom e Autostrade, approda oggi alla Commissione Affari costituzionali del Senato il Ddl Lanzillotta, che impone una nuova ondata di privatizzazioni nei servizi pubblici locali. Un settore con un giro d’affari di 23 miliardi, utili lordi vicini al miliardo, 160 mila lavoratori. Ex municipalizzate, ex aziende speciali, oggi, a quanto si dice, efficientissime società per azioni: 870 imprese, spesso a netta prevalenza di capitale pubblico, che erogano energia ed acqua, raccolgono e smaltiscono i rifiuti, garantiscono i trasporti collettivi, la gestione di parcheggi e la manutenzione di strade. Aziende dal capitale pubblico, ma già soggette a regole e logiche proprie del privato. Su questo settore, oggi, prova a intervenire il disegno di legge delega n.772, presentato dal ministro Linda Lanzillotta e controfirmato da Prodi, Bersani, Amato, Di Pietro e Bonino. Con un obiettivo: farla finita con la pratica delle assegnazioni dirette. Per la banda Lanzillotta, da domani, si andrà a gara, e imprese private concorreranno per vincere ricche commesse, che riguardano beni e diritti di tutti. Si salvano solo le reti e l’acqua. Ma se nel Ddl si fa precisa menzione di come realizzare la nuova ondata di liberalizzazioni, della “ripubblicizzazione” dell’acqua non si parla affatto. Né si affronta il problema della copertura economica per rendere operativo questo principio. Infatti, quella della Lanzillotta, è una (contro) riforma a “costo zero”. Per riconquistare l’acqua nel novero dei beni pubblici c’è tempo…
Ci aveva già provato il governo Berlusconi, con l’articolo 35 della finanziaria 2002, ma il fuoco di sbarramento di imprese ed amministratori lo aveva costretto a indietreggiare. Da allora la normativa (articolo 13 del Testo Unico degli Enti Locali) permette tre diverse forme di gestione dei servizi: gara pubblica; assegnazione a società di capitale misto con gara per la quota privata; assegnazione diretta a società di capitale pubblico (in house), nonostante le leggi di settore (Decreto Burlando sui trasporti pubblici, Decreto Bersani sull’energia, Decreto Letta sul gas) rendono già molto difficile l’assegnazione diretta. Una sentenza della Corte di Giustizia Europea, inoltre, permette l’assegnazione diretta, definita “residuale”, ma non, come nel Ddl n.772, “eccezionale”. Tanto eccezionale da spingere l’ultras del mercato Lanzillotta a imporre un ultimatum: dal 2011 il pubblico dovrà uscire dai nostri fornelli, da cassonetti e bus. E si realizzerà il sogno dell’aggressivo Montezemolo: la fine del “neostatalismo municipale”, la liberazione di ingenti capitali che diventeranno campo di conquista di poche grandi imprese. Forse anche di multinazionali straniere.
Non sarà facile, per la Lanzillotta, realizzare il suo sogno. Nelle aule del Senato si vocifera di un blitz, con l’inserimento del provvedimento nella Finanziaria, destinata alla fiducia. Ma, a quanto pare, ampi settori dei Ds non sono per nulla d’accordo. Rifondazione, da sempre impegnata in difficili battaglie di “ripubblicizzazione”, non farà mancare il suo fuoco di sbarramento, mentre un lungo elenco si associazioni movimenti e sindacati hanno già preparato un appello (pubblicato ieri dal nostro giornale) di netta opposizione al provvedimento. Anche l’Anci (Associazione Nazionale Comuni d’Italia) ha espresso forti critiche, presentando nella Conferenza dei servizi del 14 settembre sette emendamenti al Dl, coi quali si faceva salva la possibilità per i comuni di scegliere forme societarie e metodi di assegnazione. Ma anche Confservizi, associazione datoriale delle imprese delle public utility, non ha gradito. Già lo scorso luglio all’assemblea generale dell’associazione, il presidente Raffaele Morese prendeva una posizione netta: «Sulla base dei risultati finora raggiunti esprimiamo un giudizio positivo sulle società miste e non ce la sentiamo di demonizzare neanche l’in house». Non la pensa diversamente neppure Mauro D’Ascenzi, presidente di Federutility: «Quello che capita in Telecom e Autostrade dimostra che si è vagheggiato per anni del potere benefico delle privatizzazioni. Ora il privato sta vendendo le aziende agli stranieri. Le nostre imprese invece comprano pezzi di aziende private e internazionali e si aggregano tra loro per crescere».
D’Ascenzi ha un’idea precisa per il futuro del settore: «E’ necessario sostenere le aggregazioni con l’obiettivo a lungo termine di creare 2-4 grandi campioni nazionali che possono lavorare all’estero». D’altronde, se si esclude la Gran Bretagna dove vige il “libero mercato”, è questo il modello francese e tedesco. Il primo basato su grandi monopolisti pubblico-privati molto attivi sul mercato europeo, il secondo su processi di fusione di aziende locali che hanno portato alla nascita dell’Rwe, colosso da 2 miliardi di fatturato, su cui i lander mantengono uno stretto controllo. Anche l’Italia sembra andare in questa direzione: la fusione tra le bergamasca Aem e la milanese Asm ha dato la luce ad un conglomerato da 5 miliardi. Un percorso che potrebbero seguire anche l’Hera di Bologna, l’Iride (Torino e Genova) e la romana Acea. Tutte società miste, quotate in borsa. Società che agiscono da privati, ma nelle quali Comuni ed Enti gestiscono ampie quote azionarie. A quanto pare, queste aziende si salverebbero salve dal terremoto della Lanzillotta. Ma la storia recente delle privatizzazioni italiane, ormai è noto a tutti, non induce ottimismo.
Infatti liberalizzare il mercato ha anche i suoi contro. Il diritto comunitario non permette limitazioni all’ingresso di aziende straniere a capitale pubblico in mercati liberalizzati. Saranno in grado le nostre deboli multiutility di reggere il confronto con colossi del calibro di Rwe o Gaz de France o Suez? Il processo di fusione, secondo quanto più volte dichiarato dallo stesso Bersani, è un tentativo di difesa dal rischio di una colonizzazione straniera. Ma nonostante la spinta alla crescita dimensionale e all’espansione verticale e orizzontale delle imprese, l’Italia rimane terra di piccole aziende, anche nel settore dei Spl, specialmente nel mezzogiorno. Con la liberalizzazione il Sud potrebbe diventare terreno di conquista per le grandi conglomerate del nord o per gli agguerriti francesi. Proprio queste aziende subiranno l’attacco del Ddl Lanzillotta.
Difficilmente la (contro) riforma diventerà legge, quantomeno in questi termini. Ma anche se la “privatizzazione sostanziale” non riuscirà ad invadere anche questo settore, non poche sono le pecche di quella “formale”. Le Spa, soggetti di diritto privato, sono ormai l’assetto societario dominante, ben l’87% delle aziende delle 14 aree metropolitane, come rileva un’indagine della Pubblica. swg per l’Anci. Inoltre, dinanzi a indici di crescita nei fatturati degni della Cina (+11,5% nel 2003, +12,7% nel 2004, addirittura +13,2% nel 2005) il numero di impiegati nel settore cresce molto più lentamente (+0,2% nel 2004), e i costi, compreso quello del lavoro salgono solo del 4,2%. Frutto di aumenti della produttività, certo, ma anche di un modello di gestione della forza lavoro che che nulla ha da invidiare alla “flessibilità” del privato. Mentre i prezzi, specie per l’energia, sono in continuo aumento e la qualità stenta a migliorare. Secondo una ricerca del maggio 2006 dell’Anci il 69% dei cittadini chiede più regole, e ben il 78% crede che nei servizi sia necessario un maggiore intervento pubblico. Piuttosto che affidarsi all’estremismo neoliberista della Lanzillotta, forse, sarebbe necessario tornare indietro: a quando la presenza dello Stato era sinonimo di eguaglianza nei diritti e di controllo pubblico sui beni pubblici.