Da due decenni l’industria del disco non lo aveva più preso in considerazione. L’ultimo saluto questa mattina in Campidoglio ad uno degli “chansonnier” più colti del nostro paese
Quasi tutti i giornali di ieri hanno reso onore a Sergio Endrigo scrivendo la verità: è scomparso un raffinato cantante che da due decenni era stato quasi del tutto dimenticato dall’industria del disco e dalla cultura italiana.
Questa franchezza, priva delle lacrime di coccodrillo, rimanda al “caso Endrigo”. Come è potuto accadere che un cantautore che ha collaborato con Giuseppe Ungaretti, Ignazio Butitta, Raphael Alberti, Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Vinicius de Moraes e Gianni Rodari, avvicinando – come mai era avvenuto prima – la canzone alla poesia e alla letteratura sia rimasto così a lungo nel dimenticatoio?
A spiegarlo non può bastare la considerazione che le canzoni e i loro interpreti rappresentano una fase circoscritta del costume di un paese. Questo può accadere quando chi canta è fabbricato nello studio di una multinazionale del disco, non di fronte a un colto chansonnier che ha saputo unire una produzione di alto livello (“Via Broletto”, “Poema degli occhi”, “Come stasera mai”, “Camminando e cantando”) con la vittoria di un Festival di Sanremo in coppia col brasiliano Roberto Carlos (“Canzone per te” nel mitico 1968) e una produzione di canzoni rivolta ai bambini (“La casa”, “Per fare un fiore” in collaborazione con Rodari e de Moraes) più altre molto impegnate (“La ballata dell’ex”, “Lettera da Cuba”, “Dall’America” fino a “Anch’io ti ricorderò” dedicata a Che Guevara e “Tango rosso” scritta nel momento dell’autoscioglimento del Pci).
Quando di tutto questo si parlava con lui, Endrigo si scherniva e non sapeva rispondere: forse era colpa dell’industria del disco che pensava non vendesse più come una volta, forse era colpa dell’etichetta di cantante malinconico che gli avevano affibbiato come una colpa (Alighiero Noschese, da grande imitatore, ne aveva impietosamente esagerato i tic), forse era colpa sua perché gli piaceva vivere appartato. Certo, con il tempo, la discrezione di Endrigo, che celava soprattutto timidezza, era diventata un handicap.
Anche negli ultimi anni, colpito da una fastidiosa labirintite e da un ictus che gli aveva lasciato dei problemi nel camminare, Endrigo era rimasto quello di sempre: discreto, elegante nei modi e nel parlare, disponibile all’incontro con gli altri, curioso. Il suo look era restato comunque più quello dell’intellettuale che del cantante. Gli piaceva ricordare che aveva iniziato la carriera nelle balere e nei nigth dei primissimi anni Cinquanta, a Grado e a Venezia fino a quando – nel 1962 – la Ricordi gli propose di provare da sé a scrivere le canzoni e lui tirò fuori la bellissima “Io che amo solo te”, che riuscì a vendere 650 mila copie, facendo guadagnare al suo autore il proprio spazio accanto ad altri cantautori emergenti (Bindi, Paoli, Tenco, Gaber, Jannacci, Lauzi).
Lo sguardo serio, forse da attore mancato, e la predisposizione all’introspezione gli venivano da una adolescenza sofferta. Nato a Pola nel 1933, Endrigo era rimasto orfano di padre da ragazzino e poi era stato sfollato con tanti altri italiani dall’Istria nell’immediato dopoguerra. Dopo una parentesi a Trieste, era stato mandato in collegio a Brindisi. Siccome gli piaceva cantare (suo padre era un cantante d’opera), aveva iniziato a farlo sulle navi e nelle balere abbandonando gli studi. Con modestia e orgoglio, non perdeva occasione per dire che dopo tutto non avrebbe mai immaginato che quel mestiere gli avrebbe poi permesso di vivere con agio.
Endrigo si è sempre dichiarato comunista. Ogni volta che lo chiamavano a un Festival dell’Unità, accettava con piacere. Ha scritto varie canzoni politiche (“Dolce paese”, ritratto impietoso dell’Italia; “Se il primo maggio a Mosca”, canzone che racconta la speranza poi delusa che la sua generazione ha avuto nell’Unione Sovietica). Ma non era un cantante politico, anche se raccontare in un certo modo amori e sentimenti rivela particolari sensibilità politiche.
A me è capitato due anni fa, Festival nazionale dell’Unità a Genova, di moderare un dibattito con Endrigo sulla relazione tra le canzoni e l’emigrazione. Lui era arrivato puntuale, senza farsi problemi per quella gamba che doveva un po’ trascinare e che strideva con la sua immagine altera, signorile, sobria, disponibile. Naturalmente, nel dibattito, aveva tirato fuori l’antica polemica con Lauzi, quando lui scrisse una risposta a “Quel treno che viene dal sud” cantando che non trasportava solo “Marie con labbra di corallo”. Il pubblico, pure in quella occasione, gli aveva riservato un’affettuosa accoglienza che lo aveva rincuorato. Mentre qualcuno, intervenendo al microfono, aveva definito la sua “L’Arca di noé” canzone futurista e perfino post moderna («Un volo di gabbiani telecomandati e una spiaggia di conchiglie morte, nella notte una stella d’acciaio confonde il marinaio…»).
La passione di Endrigo era il Brasile, dove grazie alla collaborazione con Vinicius de Moares, Toquinho, Chico Buarque de Hollanda e la vittoria di Sanremo nel 1968 con Roberto Carlos, era venerato come un’icona della musica (di recente aveva dichiarato che avrebbe voluto tornare lì ancora una volta, forse per restarvi definitivamente). Non riusciva neppure a dimenticare Cuba, che lo aveva accolto trionfalmente negli anni Sessanta dopo aver musicato alcune poesie di José Martì (“La rosa bianca”) e dove era tornato, in una breve tournée organizzata dall’Arci, nel 1997. Proprio quel viaggio cubano ne interrompeva l’inattività, anche se dal 1980 al 1994 aveva registrato quattro long playing passati del tutto inosservati (ora, di sicuro, saranno riscoperti).
Una volta, gli ho chiesto come si vive lontano dal pubblico. Ha risposto francamente: «Si vive molto male. O si smette o si vive una condizione di vuoto che fa male. Ci si sente frustrati, perché non molto cambiati dentro. Si vede quelli che vanno avanti e si prova rammarico a non essere sul palcoscenico insieme a loro. E’ un po’ tragico sentirsi esclusi da un mondo di cui ti senti parte. Ho pensato di far altro, ma c’è una forza magnetica che non ti fa smettere». Le sue amarezze le aveva poi raccolte in un libro, Quanto mi dai se mi sparo? , che le Edizioni associate hanno di recente ristampato. Gli piaceva ricordare anche la bella e lunga collaborazione con il paroliere-produttore Sergio Bardotti, mentre gli dispiaceva di aver rincontrato il musicista Luis Bacalov nelle aule di un tribunale (l’accusa di plagio rivolta a quest’ultimo per la musica di Il postino, ultimo film di Massimo Troisi, che Endrigo aveva inciso in un suo pezzo di qualche anno prima).
Negli ultimi anni, vari episodi hanno per fortuna rotto l’isolamento forzato di Endrigo, a cui si era aggiunta la morte dell’amatissima moglie Lula. Matteo Perazzi, un giovane fan, gli ha costruito un bel sito internet dove è raccolta tutta la sua carriera (www. sergioendrigo. it). Nel 2001 il Club Tenco gli ha dedicato una serata speciale, poi raccolta in cd (Canzoni per te), dove tanti cantanti giovani e meno giovani interpretano i suoi pezzi. Alcuni suoi dischi sono stati ristampati: dal recital L’Arca di noé del 1970 a La vita, amico, è l’arte dell’incontro, fino al recentissimo doppio cd i 45 giri. Nel 2003 ha inciso un cd – in collaborazione con la figlia Claudia – dove accanto ai suoi successi cantava una struggente “Altre emozioni”, dove dice fra l’altro «Abbiamo vinto e perso con filosofia, altre primavere verranno non solo di foglie e fiori ma una stagione fresca di pensieri nuovi». Alcuni cantanti friuliani hanno inciso nel loro dialetto molte canzoni di Endrigo per rendergli omaggio. Un libro-conversazione di Stefano Crippa e Doriano Fasoli ne ha ricostruito tutto l’itinerario artistico.
Claudia Endrigo ha annunciato ieri che il padre non ha voluto funerali pubblici, preferendo semmai – come avviene per i musicisti del jazz – un bel concerto di addio. Ora spetta ai colleghi del cantautore di Pola (e al sindaco di Roma, Walter Veltroni) raccogliere le ultime volontà di Sergio Endrigo.