Sequestrati e torturati. Su mandato di Londra

La lotta al terrorismo – ha spiegato più volte la Casa Bianca ai suoi oppositori – non conosce confini. E chi minaccia la sicurezza dell’Occidente deve essere perseguito dovunque si trovi. L’ultimo fronte della guerra globale è stato aperto nel sud dei Balcani, ad Atene, ma sta facendo sentire i suoi effetti fino a Londra e Islamabad. Uno sporco affare in cui sono coinvolti il governo greco, 28 immigrati pakistani e l’M16, il servizio segreto della regina Elisabetta.
La vicenda risale alla scorsa estate. Subito dopo gli attentati del 7 luglio a Londra, gli agenti dell’intelligence greca – supportati dalle spie di Sua Maestà – prelevano dalle loro case 28 cittadini pakistani ritenuti legati agli attentati. Un’operazione in grande stile, ad Atene, a Ioannina, Oinofyta e altre città greche, ma condotta di notte e lontano dai riflettori dei media. L’opinione pubblica non viene messa a conoscenza del fatto. Intanto i presunti terroristi vengono trattenuti in una località segreta e interrogati brutalmente per più di una settimana, senza possibilità di parlare con un avvocato. «Mi hanno chiesto se avevo legami con al Qaeda – spiegherà più tardi Mohammed Munir, uno dei 28 “sequestrati” – ma gli ho risposto di no, che sono un musulmano e che sono venuto in Grecia per sfamare mia moglie e i miei tre figli rimasti in Pakistan». I racconti dei suoi compagni sono simili: giorni e giorni di violenze e fitti interrogatori con la pistola puntata alla testa, senza mai arrivare a nulla. Alla fine i 28 vengono liberati, di notte e in pieno centro di Atene. Il patto è quello di non raccontare nulla e di non rivolgersi alla giustizia, pena una rappresaglia sui familiari rimasti in Pakistan.

E del misfatto nulla si sarebbe saputo, se non fosse stato per l’intervento dell’avvocato Frangiskos Ragousis. Il noto penalista – difensore tra l’altro di uno dei membri dell’organizzazione estremista 17 Novembre – presenta il 29 luglio un dossier alla Procura di Atene, in cui denuncia il sequestro di 7 pakistani avvenuto nella città di Petralona, nel nord del Paese. I suoi assistiti – si legge nel documento – sono stati prelevati dalle proprie abitazioni, ammanettati, bendati e trasferiti in una località imprecisata, dove sono stati interrogati per diversi giorni. La denuncia viene resa di pubblico dominio, ma solo due mesi più tardi il pubblico ministero Dimitris Papangelopoulos si decide ad avviare un’indagine preliminare. Ma il vero scandalo esplode il 14 dicembre, quando Ragousis presenta un dossier al Parlamento, chiedendo di fare luce sulle «condizioni di illegalità e di clandestinità in cui i 28 immigrati sono stati arrestati e torturati».

Non potendo continuare a far finta di nulla, il governo ellenico interviene ufficialmente, negando qualsiasi coinvolgimento e aggiungendo di non avere ricevuto «alcuna denuncia ufficiale circa il rapimento di cittadini stranieri». Nelle stesse ore l’ambasciatore del Pakistan ad Atene Rashed Saleem Khan dichiara ai giornalisti di non sapere nulla.

In pochi giorni, però, la situazione precipita. La rivista Proto Thema pubblica un’ampia ricostruzione dell’operazione, includendo nomi e cognomi degli agenti greci coinvolti e quello di una delle due spie britanniche. Per la prima volta interviene anche il governo di Londra, che – pur smentendo i fatti («Le notizie sono del tutto prive di fondamento») – vieta alla stampa nazionale di pubblicare le generalità dell’uomo dell’M16. Contro l’imbarazzato Tony Blair si muove invece il numero due del partito liberaldemocratico, Menzies Campbell, che il 29 dicembre chiede al Parlamento del Regno Unito di aprire un’inchiesta.

Ma la partita vera si gioca ancora in Grecia, dove l’inchiesta è iniziata e dove viene mantenuta più viva la pressione dell’opposizione parlamentare, della stampa e delle organizzazioni per i diritti dell’uomo. Finora il ministro dell’Interno George Voulgarakis ha spiegato soltanto che dopo le bombe del luglio scorso le autorità greche hanno interrogato 5mila cittadini stranieri – come richiesto da Londra – senza però mai oltrepassare i limiti della legalità. Il governo greco, insomma, respinge gli attacchi, ma mostra di avere ormai i nervi scoperti. La scorsa settimana il vice di Voulgarakis, Christos Markoyannakis, è stato costretto alle dimissioni per avere pubblicamente criticato il giudice che sta portando avanti l’inchiesta. La speranza recondita è che tutto venga messo a tacere in ossequio ai nuovi diktat sulla sicurezza di George Bush, la cui validità è stata ribadita di recente in Europa dal segretario di Stato Condoleezza Rice. L’esecutivo greco ha già dato prova di condividere la visione del mondo dell’attuale amministrazione Usa: la lotta al terrorismo – ha spiegato in un’intervista il premier Costas Caramanlis – non deve certo «compiacere la Carta Onu e il diritto internazionale”.