Senza fine

Sull’omicidio di Nicola Calipari Berlusconi parlerà «solo alla fine». Lo ha promesso in Parlamento e – data la solennità del luogo – c’è da credergli. Anche perché per uno che parla spesso in libertà, questo rinviare «alla fine» deve rappresentare una bella fatica. Oppure celare una grande difficoltà. Ma il punto è: quando arriva «la fine»? Sono passati quasi due mesi dall’annuncio dell’istituzione di una «commissione mista» italo-americana che avrebbe dovuto dirci la verità su quanto accaduto nei pressi dell’aeroporto di Baghdad la sera del 4 marzo («in quattro o cinque settimane al massimo» disse allora il presidente del consiglio). Di «relazioni finali» non c’è ancora traccia, tante – invece – le indiscrezioni, sempre di fonte americana, sempre provenienti dal Pentagono, tutte con una stessa logica: chi ha sparato è innocente, altri hanno sbagliato. Il primo di questi «altri» sarebbe proprio la vittima della sparatoria, Nicola Calipari. Indiscrezioni cui sono sempre seguite frettolose smentite: «l’inchiesta è ancora in corso», ultima in ordine di tempo quella di Silvio Berlusconi ieri alla camera.

La realtà è molto semplice, ma non aiuta la verità, anzi. Gli Stati uniti non possono permettersi la messa in stato d’accusa di un qualunque loro soldato impegnato in azioni di guerra; l’impunità è la condizione necessaria per garantire la riuscita della «missione», in questo caso il controllo dell’Iraq. Per questo Washington non può concedere nemmeno un capro espiatorio, figurarsi l’accertamento di responsabilità più consistenti nella loro catena di comando. E, da questo punto di vista, la serie di indiscrezioni un risultato l’ha già ottenuto: il contenzioso si concentra sulla dinamica della sparatoria (che, invece, è chiarissima) per occultare i colpevoli materiali, mentre nessuno si perita di chiedere perché quella pattuglia sia stata messa nella condizione di sparare. Salvo dire che è successo per responsabilità di chi viaggiava sulla Toyota presa di mira dal fuoco americano. Un perfetto rovesciamento di senso che precostituisce una realtà posticcia.

Ce ne sarebbe per provocare una vera crisi internazionale tra Italia e Stati uniti, per sganciarsi dal carro di Bush, per ritirare le truppe italiane dall’Iraq; se non per pacifismo almeno per spirito di sovranità. Invece si rischia un Cermis all’ennesima potenza, un’estenuante ricerca di una mediazione tra due sponde dell’Atlantico per garantire da un lato l’impunità dei soldati e dall’altro la non sconfessione di tutto ciò che il governo italiano e il Sismi hanno fatto nei trenta giorni del sequestro di Giuliana Sgrena. E poiché la quadratura del cerchio è impresa ardua, il rischio più probabile è che tra qualche giorno ci consegnino una stringatissima nota che ribadisce la tesi della tragica fatalità, senza nemmeno una «cronaca dei fatti» senza sposare o smentire le due versioni contrastanti dei protagonisti di quella notte (i soldati americani da un lato, Giuliana Sgrena e l’agente del Sismi superstite dall’altro).

Quando venne sequestrata Giuliana dicemmo che l’impegno per la sua liberazione e quello contro la guerra erano la stessa cosa. La scelta della trattativa con i rapitori e il modo in cui è stata condotta da Nicola Calipari erano, almeno per noi, una conferma di quell’equazione. Non abbiamo cambiato punto di vista: l’accertamento della verità sull’omicidio di Nicola e la liberazione dalla guerra americana sono una cosa sola. Per questo siamo ancora fermi sulla strada per l’aeroporto di Baghdad, in una serata di marzo e da lì non possiamo muoverci finché non ci diranno chi e perché ha sparato e ucciso, finché i soldati italiani non torneranno a casa.