Senza Carta né legge Repubblica anno zero

Fossimo in un paese anglo-sassone, e stanotte le tradizionali note di Auld Lang Syne, quelle che accompagnano gli addii, dovrebbero risuonare senza soluzione di continuità fino all’alba e oltre. Non se ne va solo un anno come tanti. Col 2005 si diparte la gloriosa Costituzione del 1948, dopo un assedio durato lustri. Esce di scena anche la legge elettorale varata a furor di popolo nel 1993, e anche in questo caso non si tratta solo di un sistema elettorale: il passaggio dal sistema proporzionale a quello maggioritario era stato l’atto di nascita e insieme la poco solida base della decantata seconda repubblica. Con il cervellotico sistema ideato da Sergio Mattarella naufraga anche la repubblichetta in questione. Del resto non aveva mai preso il largo: un guscio di noce che aveva iniziato a imbarcare acqua un attimo dopo il varo. Meglio sgombrare il campo dalle chiacchiere in libertà che già abbondano e si moltiplicheranno a ridosso della prova elettorale. Comunque vadano le prossime elezioni, né la nobile Carta né l’ignobile legge elettorale torneranno in vita. Che si svolga o meno il referendum sulla riforma di Berlusconi e Bossi, l’esito sarà comunque identico. Non il ripristino della Costituzione appena sepolta ma il tentativo di sostituirla con un testo meno indigeribile del brogliaccio di Lorenzago, possibilmente, stavolta, senza escludere dai lavori la minoranza di turno. La bicamerale-bis è dietro l’angolo. Nonostante gli strepiti dei Ds non rivedrà la luce neppure il maggioritario, né quello a turno unico che abbiamo conosciuto né quello a turno raddoppiato che vagheggia il botteghino. Lo impediranno i tantissimi che, chi apertamente, chi fingendo il cordoglio, non vedevano l’ora di liberarsi di una legge che ne ostacolava la libertà di spregiudicate manovre.

A vanificare i sogni di riesumare la Costituzione del `48 non saranno invece la cattiva volontà degli attori in campo e un potere di interdizione che continua a essere elargito generosamente a tutti i soggetti politici, solo che abbiano voglia di reclamarlo. Più che dai nordici strilli, dal cinismo del cavaliere, dai calcoli miopi della Quercia, l’agonia della Carta è stata decretata dalla scomparsa dei rapporti sociali e degli equilibri internazionali che quel testo registrava. Modificarla salvaguardandone i valori di fondo sarebbe il compito eminente di una classe dirigente degna del nome.

C’è di certo una beffarda ironia nel contemporaneo inabissarsi della Costituzione e della legge elettorale che le aveva inflitto, nel `93, il colpo mortale. Solo l’ingenuità di pochi e la malafede di moltissimi poteva infatti sostenere che la cancellazione del proporzionale non avrebbe destabilizzato per intero sistema di regole di cui quel sistema elettorale era parte integrante e pietra angolare. Il doppio decesso non è frutto di mera coincidenza: la traballante seconda repubblica passa la mano dopo aver portato a compimento il suo mandato, quello di disgregare e demolire l’impianto istituzionale e sociale precedente. Un lavoretto svolto egregiamente, al quale non purtroppo corrisposto un’identica efficacia nel delineare qualche traccia dei futuri assetti. Per l’Italia il 2006 rischia di somigliare all’anno zero, e il miglior consiglio che si possa dare, visto quel che passa il convento dell’alta politica, è di tenere le dita fortemente intrecciate.

Nell’anno degli affossamenti, sprofonda anche la Bankitalia che abbiamo conosciuto, e per fortuna anche quella guidata negli ultimi dieci anni da Antonio Fazio. I soliti magistrati, con le loro inchieste e le loro sapienti indiscrezioni, hanno potuto molto più dei risparmiatori salassati da un paio di tracolli di proporzioni epiche. Non che ci si dolga della tardiva fuoriuscita del governatore ciociaro, però spingerlo verso l’uscita per aver chiuso entrambi gli occhi sui dissesti Cirio e Parmalat, senza aspettare le manovre oscure dei raider e l’intervento conseguente dei togati, avrebbe regalato al paese un briciolo di fiducia nelle istituzioni in più. Complimenti dunque al ministro Tremonti, che dalla torbida faccenda esce meglio di quasi tutti gli altri.

Il successore di Fazio, Mario Draghi, è stato accolto da un tripudio d’applausi che lèvati. Per nominarlo con tutti i crismi, Berlusconi si è scomodato sino a telefonare di persona all’arcinemico Prodi. Travolto dai complimenti, il neogovernatore della riformata Banca ha esordito spiegando che punterà sulle liberalizzazioni, e dati i privatizzanti precedenti non c’è da stupirsene. I battimani, anche a sinistra, non sono tuttavia diminuiti per così poco.

La terapia di Draghi incontrerà sicuramente la piena approvazione dell’uomo che qualcuno ipotizzava, probabilmente a torto, in lizza per lo stesso governatorato: Giuliano Amato, «dottor sottile» in tempi da dimenticare, sepolti col cinghiale di Tunisi. Quello di Amato è un parere che conta oggi: molto più conterà tra pochi mesi. Il 2005 è anche l’ultimo anno della presidenza Ciampi, e non è che di successori papabili ce ne siano tanti. Per la verità, in grado di incontrare il favore sia della maggioranza che dell’opposizione ce n’è uno solo, e guarda caso è proprio lui, l’inaffondabile Amato. Ce lo ritroveremo insediato al Quirinale, e c’è il caso che faccia rimpiangere molti dei suoi predecessori.

Arriva a conclusione anche la legislatura nata nel 2001. Per un pelo Berlusconi non ce l’ha fatta a raggiungere l’obiettivo che si era prefisso sin dall’insediamento a palazzo Chigi: un solo governo per l’intera legislatura. Doveva essere l’asso da calare in campagna elettorale, si sa che agli italiani i record piacciono, ma il cavaliere rimedierà facilmente al danno vantando una continuità personale, il primo premier in carica per cinque anni filati nella storia della repubblica. Un bel risultato. Purtroppo anche l’unico che il capo del centrodestra possa vantare. Difficile che gli basti per l’agognata riconferma.

In politica l’ultima parola non è mai detta, ma gli estremi per scommettere sulla sconfitta della Casa delle libertà ci sono tutti. Non si tratterebbe di una ripetizione del 1996. Stavolta per Silvio Berlusconi l’essere battuto nelle urne equivarrebbe a una più o meno indolore uscita dal «teatrino della politica». Da dieci anni giura di detestarlo: non si può che augurargli di riuscire infine a liberarsene.

Sia chiaro: nel caso, re Silvio uscirebbe di scena come un trionfatore. Era entrato in politica per supplire all’imprevista scomparsa del suo alto protettore socialista e per evitare un dissesto finanziario sin troppo incombente. Della politica gli è sempre importato pochissimo, e il senso dello stato neppure sa dove stia di casa: nel dubbio, ritiene che dimori in qualche villa di Arcore o Macherio.

Berlusconi ha stravinto. Il vero Berlusconi: non il politicante che finge di essere ma il capitano d’industria che è sempre rimasto, quello che ha saputo mettere la politica al servizio delle sue aziende e trasformare una crisi potenzialmente devastante in opportunità dorata. Ha risanato i conti, moltiplicato a dismisura il capitale, messo le sue aziende in una botte di ferro. Certo, se sconfitto, gli resterà il cruccio di non essere diventato presidente della repubblica, e scagli la prima pietra chi è alieno da qualche piccola vanità. Ma si consolerà facilmente. Per lui, e quasi solo per lui, il 2006 non sarà comunque l’anno zero.