Caro Sansonetti, era meglio se quel muro rimaneva ancora in piedi. E ai giovani di Rifondazione che si dicono ancora comunisti chiediamo: fondiamo subito un’organizzazione giovanile unitaria.
A vent’anni dalla caduta del muro di Berlino, i giovani comunisti di Rifondazione Comunista hanno deciso di celebrare quel “tragico” evento, dedicando la tessera del 2009 all’abbattimento di quell’agglomerato di cemento armato e graffiti che per più di trent’anni ha contribuito a dividere fisicamente e mentalmente il mondo in due blocchi. Una scelta coraggiosa, non c’è che dire, che ha il merito di fare chiarezza sulla capacità del gruppo dirigente dei giovani comunisti di comprendere e decifrare la storia, così come di sollevare un dibattito che, trascorsi vent’anni, può essere affrontato laicamente, anche da parte di chi, come me, nel novembre del 1989 aveva da poco compiuto 9 anni.
Il compagno Simone Oggionni, coordinatore dei Giovani di Essere Comunisti, con un articolo apparso su Liberazione lo scorso 13 dicembre, ha avuto l’innegabile coraggio di intervenire sul punto affermando che, forse, da quella storica caduta, all’umanità tutta e all’Europa in particolare sono nate più sventure e disastri, che sorti magnifiche et progressive. Da quell’intervento sono nate infinite polemiche e levate di scudi, con il direttore Sansonetti di Liberazione che un’editoriale in cui ammetteva candidamente di non essere comunista (per inciso, non ce ne era bisogno, nessuno di nutriva alcun dubbio) difendeva la tessera, la scelta e il giudizio: la caduta del muro ha sancito la liberazione di milioni di persone dalla dittatura e dall’oppressione che ormai da ottant’anni violentavano una parte del mondo.
Caro Sansonetti, ci dispiace, ma hai torto. Era meglio se quel muro rimaneva ancora in piedi. Nel mondo bipolare erano i lavoratori a stare meglio. E non solo quelli che vivevano al di là della cortina di ferro, ma anche quelli europei.
Capisco che queste parole possano sembrare inaudite ad una generazione cresciuta tra film di Walt Disney dove arditi riuscivano a scappare da feroci pastori tedeschi comunisti della DDR costruendo con lenzuola mongolfiere o telefilm di Mac Gyver dove il nostro eroe riusciva a passare il muro nascondendosi in una bara, ma credo che a distanza di vent’anni sia arrivato il momento di aprire un simile dibattito e analizzare la storia, vista dalla parte degli oppressi e dei lavoratori, non con gli occhi distratti dello spettatore che si assopisce guardando History Channel, ma cercando di sviluppare un giudizio che, se non è storico, può tentare di essere almeno politico.
Non è una abiura della storia e della tradizione politica del partito comunista italiano, né una critica postuma alla sicurezza data al compagno Enrico Berlinguer dall’ombrello della Nato. Ma un conto è giudicare il grado di socialismo, gli eccessi, le storture dei governi comunisti dell’Est Europa e dell’Unione Sovietica, altro conto è celebrare con orgoglio l’evento che ha dato all’imperialismo statunitense la possibilità di dispiegarsi in tutto il mondo, ai diritti dei lavoratori europei di essere compressi sino quasi alla cancellazione e che ha consegnato milioni di uomini e donne al capitalismo rampante degli oligarchi russi.
Forse che le schiave bambine russe e moldave che sono costrette a vendere il loro corpo, sfruttate dai loro aguzzini sulle nostre strade, stanno meglio perché è caduto il muro di Berlino? E che dire della guerra che, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno portato in modo indiscriminato in tutto il mondo? L’assenza di un forte campo socialista che possa far da contrappeso al’avanzata del capitale non è stato forse anche causa della riduzione dei diritti dei lavoratori? Dal 1989 ad oggi, dopo la caduta del muro e il crollo di uno dei due blocchi, anche per la indiscutibile incapacità dei partiti comunisti di agire e lavorare in questo nuovo quadro politico, i diritti dei lavoratori sono stati ridotti, diminuti, violentati. Anche perché i comunisti hanno abbandonato le periferie e i luoghi del lavoro e del disagio. Ma non solo per questo.
Peraltro ci si è scandalizzati tanto per il muro di Berlino, ma non lo si è fatto per tanti altri muri. A Cipro, l’unica isola comunista d’Europa, la linea verde divide ancora un popolo in due stati. E che dire della barriera di filo spinato e guardie armate che separa il Messico dagli Stati Uniti, attraversando la quale molti uomini e donne trovano le morte? Perché di questi muri non si parla? Perché siamo solo noi a denunciarli e a lavorare perché siano abbatuti?
Francamente celebrare il 1989 come un grande momento di liberazione e di riscatto ci sembra eccessivo. Ma si sa, ormai uscire fuori dal pensiero unico è davvero cosa complicata. Anche per i Giovani Comunisti. E’ per questo che la tessera della FGCI di quest’anno celebrerà un grande avvenimento che si è svolto sempre a Berlino, ma qualche anno prima, quando l’Armata Rossa conquistò la capitale tedesca facendo sventolare dal Reichstag liberato la bandiera rossa della riscossa degli oppressi.
Colgo l’occasione anche per fare una domanda ai miei amici Betta Piccolotti e Federico Tomasello, portavoce della nostra organizzazione sorella. Perchè vi ostinate ancora a mantenere quel nome? Siete forse legati ad esso come fosse un feticcio? Questo paese e i giovani italiani – l’hanno dimostrato anche i recenti movimenti dell’Onda – hanno necessità di una forte organizzazione giovanile che sappia dare voce allo sfruttamento e al precariato.
Non c’è più lo spazio in Italia per due organizzazioni giovanili comuniste. Mettiamo da parte ogni rancore, e creiamo immediatamente l’Unione di tutti i Giovani Comunisti, un’organizzazione aperta e dinamica, in cui tutti possiamo ritrovarci e lavorare. Ce lo impone la recente disfatta elettorale, ma ce lo impone innanzitutto il buon senso. E’ una richiesta che la FGCI rivolge a tutti Giovani Comunisti. Ma nel caso in cui qualcuno pensi invece che il futuro sia una struttura debole e decomunistizzata, è una richiesta che rivolgiamo ai molti compagni giovani e comunisti iscritti a Rifondazione che credono ancora nella necessità di modificare lo stato di cose presente. Il tempo è scaduto. Lavoriamoci da subito.