Nel mandato che la cosiddetta sinistra radicale ha ricevuto dagli elettori c’era una voce che spiccava a chiare lettere: no alla guerra. Si tratta di tre parole, nulla di complicato da comprendere, inscritte nel senso comune di tutti i popoli. Hanno i loro ottimi motivi: chi vorrebbe morire sotto un bombardamento o ammazzato a un posto di blocco? Chi vorrebbe convivere con coprifuochi, rastrellamenti, fame ed epidemie e chi, ancora, trascorrere il resto della sua vita con qualche arto in meno, sostituito da una protesi luccicante e tecnologica come il fucile micidiale che gli hanno assegnato quando è partito per la guerra o, peggio ancora, tornare a casa in una cassa di legno? Nessuno, e gli italiani non fanno eccezione, se non per il fatto che più di altri popoli hanno inteso rendere chiaro il concetto a chi li governa e a milioni, in questi anni, sono scesi nelle strade, ripetendo quelle tre parole: no alla guerra.
Poi, anche da noi, dalle pance dei C-130, hanno iniziato a uscire le bare agghindate con il tricolore, a decine. Strazio dei parenti, picchetti d’onore, parole di circostanza. La guerra è venuta in visita anche a casa nostra e aveva le stesse orribili sembianze di sempre. Personalmente non nutro alcuna particolare passione per i sondaggi ma sono ragionevolmente certo che a quel punto la repulsione degli italiani per la guerra si sia ulteriormente rafforzata e, con essa, la richiesta del ritiro delle truppe. Aspetto che qualcuno mi dimostri il contrario. Dirò di più: ricondurre questa diffusissima ostilità a una questione di «pacifismo» è riduttivo. La pace è un concetto fondamentale e condiviso ma in qualche modo inadeguato a rappresentare le ragioni di «buon senso» che in tutto il pianeta la gente oppone alla logica della guerra preventiva, che non è il corriere espresso della democrazia, non aumenta la sicurezza, non porta la pace. Il governo Berlusconi si è prestato di buon grado a questa truffa, mandando i nostri soldati in Iraq. Quello dell’Unione li riporterà finalmente a casa, senza brillare, in verità, per iniziativa, visto che si atterrà più o meno ai tempi già decisi dallo stesso Berlusconi. Comunque lo farà, segnando un punto a suo favore, anche se esiste anche un «fronte interno» della guerra, fatto di servitù e basi militari che opprimono territori, come la Sardegna, che da decenni attendono un segnale concreto di svolta. Qui qualche preoccupazione c’è, se è vero che per una base che si smantella, quella della Maddalena, c’è ne un’altra – quella che dovrebbe sorgere all’interno dell’aeroporto Dal Molin di Vicenza – che si annuncia. Una logica di compensazione che non promette nulla di buono e che ricalca quella che il governo sembra voler mettere in atto per le missioni, sul cui piatto, a bilanciare il ritiro dall’Iraq, ha posto la partecipazione a un’altra guerra, quella in Afghanistan, chiamandola ancora una volta con un altro nome.
La truffa è di nuovo dietro l’angolo. A Kabul e dintorni non c’è infatti nessuna pace da consolidare ma solo un’altra guerra da combattere, questa volta contro i taleban, che esattamente come accaduto in Iraq, dovevano per la verità essere stati sconfitti qualche anno fa, quando gli americani hanno chiuso in bellezza l’ennesima guerra lampo con un’innaffiata di daisy cutter, le bombe «taglia-margherite». Con il lancio di questi ordigni, gingilli del peso di 7 tonnellate, gli americani rassicurarono il mondo circa gli effetti dissuasivi della loro bonifica del territorio: vedrete, per la paura i «terroristi» non si faranno più vedere. Non è andata esattamente così.
A distanza di cinque anni, il governo di Karzai è completamente delegittimato, i combattimenti infuriano in molte aree del paese, i signori della guerra e quelli della droga fanno il bello e il cattivo tempo. Ciò è talmente vero che i generali della Nato hanno parlato chiaro: a noi servono soldati per combattere e aerei per bombardare. A ricostruire ci penseremo poi. E difatti, come i soliti bene informati hanno anticipato, pare che il nostro governo abbia risposto all’appello, fornendo ampie rassicurazioni sul cospicuo aumento del nostro contingente militare e sulla sua dotazione di elicotteri da combattimento e di predator. Gli Amx per adesso starebbero a terra, in attesa che la sinistra folkloristica, come amabilmente il presidente del consiglio ama definirci, smetta di abbaiare. A complicare il tutto, ci si è messa la ritrosia a comunicare di alcuni ministri che, oltre a garantire a tutto il mondo che noi in Afghanistan ci saremo, non vanno e a chi, come me e molti altri, chiede da tempo l’apertura di una discussione all’interno della maggioranza, oppongono un singolare e inquietante silenzio. Del resto – penseranno – non saranno mica così irresponsabili da votare contro il governo, rischiando di farlo morire ancora in fasce.
Converrete che così le cose non vanno. Non è piacevole apprendere dalla Defense News gli impegni contratti dall’Italia, è come se qualcuno avesse votato al posto tuo. E non è accettabile essere tacciati di irresponsabilità per il semplice fatto di ribadire quanto si affermava quando si era all’opposizione. Semmai è irresponsabile far passare una altra guerra sotto mentite spoglie. Dopo i Balcani, ho avuto la conferma che le bombe umanitarie non esistono. Se ci sono loro non c’è la pace. L’Afghanistan ha bisogno di scuole, di ospedali come quelli di Gino Strada, di aiuti diretti alla popolazione e non mi risulta che i predator siano adibiti a questi compiti. Di conseguenza non solo dirò no alla missione se il nostro contingente aumenterà anche di un singolo uomo ma se il governo non accetterà una discussione a tutto campo sul significato, i compiti e le prospettive del nostro impegno all’estero sono indisponibile a sottoscrivere il rifinanziamento della missione anche se essa dovesse restare così come è adesso. In questo mi sento molto responsabile, perché faccio mio il buon senso della gente.
*senatore dei Verdi-Insieme con l’Unione