Care compagne,
sono molto lieta di essere qui tra voi, in questo importante incontro delle donne europee, in rappresentanza dell’Associazione delle Donne della Regione Mediterranea, e in particolare della sua sezione italiana. Credo che questa conferenza affronti un tema di grande importanza per la condizione delle donne.
Innanzitutto, voglio complimentarmi con le compagne della MDM per il metodo dell’inchiesta sulla base del quale è stato costruito l’intero percorso che ha portato all’iniziativa di oggi.
Alcuni elementi di novità sono emersi, in questi ultimi decenni, riguardo alla presenza femminile nel mercato del lavoro in tutta l’area mediterranea, sia pure in misure e con modalità differenti tra i vari paesi:
– Il posto di lavoro è diventato la “norma”, e non più un’eccezione, nella vita delle donne: esse vogliono lavorare. C’è una crescita enorme del numero di donne lavoratrici in tutti i campi dell’economia, e molti lavori si sono femminilizzati.
– Il più delle volte si tratta però di un lavoro flessibile, sia perché l’intero mercato del lavoro va verso una condizione sempre più precaria; sia perché, nel caso particolare delle donne, ciò rende possibile loro conciliare le esigenze lavorative con il carico del cosiddetto lavoro di cura nella famiglia. E’ stato calcolato che ben il 42% del reddito totale è prodotto dal lavoro di cura, e questo ricade per la maggior parte sulle donne. All’aumento di lavoro femminile nel mercato non è corrisposto una ridistribuzione del carico del lavoro di cura non pagato e fuori mercato.
– Il lavoro delle donne è un lavoro “a tempo parziale”, meno qualificato, meno garantito, spesso occasionale o a domicilio, sottopagato se non addirittura pagato in nero, precario.
La precarietà è quindi il prezzo che gran parte delle donne accettano di pagare pur di entrare nel mercato del lavoro, e dunque il lavoro stesso non è più, in molti casi, uno strumento per potersi esprimere nella vita professionale.
Già la Conferenza di Pechino del ’95 affermava che l’inadeguato riconoscimento di quel complesso di attività produttive, riproduttive e di cura in cui si articola il lavoro delle donne nel privato e nel sociale, costituisce un aspetto fondamentale del cosiddetto “svantaggio” femminile. Svantaggio che tende ad aggravarsi in questa fase di “globalizzazione” dell’economia, i cui effetti negativi le donne, proprio quando sono alla ricerca di ridefinire la propria identità sociale, pagano più di altri in termini di svalorizzazione e marginalità.
Marginalità e precarietà continuano, quindi, a essere in larga parte attributi del lavoro femminile, continua a persistere la divisione sessuale del lavoro e, oggi come ieri, sono soprattutto le donne a raffigurare la spietatezza delle leggi del mercato.
Inoltre, i continui attacchi alla spesa pubblica e lo smantellamento dello Stato sociale che il neoliberismo pratica in tutta Europa colpiscono in primo luogo le donne, che sono le primo ad avere maggiormente bisogno di asili pubblici per i bambini, tempo pieno nelle scuole e una sanità pubblica efficiente.
La logica del “libero mercato”, e quindi il modello della “flessibilità lavorativa” e delle privatizzazioni, non si accorda con i progetti di libertà delle donne e di diritto al lavoro, tanto meno in questa fase di globalizzazione dei mercati.
Dai dati pubblicati sull’occupazione [1], emerge che in Italia la maternità spesso rappresenta una causa di espulsione dal mercato del lavoro: “il 27,1% delle lavoratrici abbandona il lavoro” e “i 2/3 di queste erano costrette a farlo per problemi di conciliazione” tra professione e lavoro di cura (tra le operaie la cifra sale al 37,6%), e, inoltre, la nascita di un figlio “rende più difficile il lavoro e arresta la carriera”. A ciò si aggiunge che la maternità rappresenta un potenziale ostacolo anche all’entrata nel mercato del lavoro, una motivazione per non vedersi rinnovare il contratto “a termine”, una causa di maltrattamenti sul posto di lavoro o della negazione di quella stessa flessibilità e part time cui accennavo prima.
In Italia, la situazione è particolarmente grave, poiché trent’anni di politiche neoliberiste hanno riportato indietro i diritti dei lavoratori in generale, e delle lavoratrici in particolare; se poi questi lavoratori e queste lavoratrici vivono nel sud del paese, o cercano adesso di entrare nel mercato del lavoro, la loro situazione è ancora più difficile.
Nel corso degli anni, diversi governi hanno approvato leggi che hanno favorito la precarietà del lavoro (vedi il “pacchetto Treu” e la legge 30 del 2003).
Un recente provvedimento del governo Berlusconi inserisce inoltre l’istituto dell’arbitrato, per cui i conflitti del lavoro possono essere demandati non alla magistratura ordinaria, ma a un “arbitro” individuato dalle controparti, e di solito più sensibile alle ragioni del padronato; una ulteriore forma di ricatto a cui saranno sottoposti i lavoratori e le lavoratrici del nostro Paese.
Inoltre la Confindustria italiana, al cui interno i settori più estremisti sono rappresentati dalla dirigenza Fiat (Marchionne) sta portando avanti un pesante attacco al Contratto collettivo nazionale delle varie categorie, mirando a rendere il rapporto tra lavoratore e imprenditore sempre più frammentato, se possibile individuale, in modo da rendere debolissima la posizione del lavoratore, e più ancora della lavoratrice. Come ha detto la sindacalista Barbara Pettini, “è in atto una strategia tesa a mettere in discussione tutti i diritti acquisiti. Questo per le donne ha un effetto ancora più pesante se solo si considera che negli ultimi 24 mesi 104mila donne sono scomparse dall’industria: corrisponde al 46% del calo dell’occupazione totale e il 92% del calo industriale del Nord” [2]. Contro questo attacco vanno soprattutto le lotte dei metalmeccanici che sono culminate nella grande manifestazione nazionale della Fiom del 16 ottobre a Roma.
Anche i lavoratori e le lavoratrici migranti stanno lottando coraggiosamente perché i loro diritti, che vanno ben oltre i pur importanti permessi di soggiorno, sono ogni giorno negati: essi chiedono condizioni umane dentro le fabbriche del nord, e lottano contro il caporalato nelle campagne del sud. La legge Bossi-Fini sull’immigrazione collega il permesso di soggiorno al contratto di impiego: crea le condizioni di una nuova forma di schiavitù. Le migranti hanno dovuto anche subire da questo governo la beffa della sanatoria per le badanti, che si è rivelata una squallida manovra utile solo a estorcere loro danaro. Milioni di migranti continuano a vivere senza diritti e completamente in balia del padronato.
Il problema peraltro non è solo quello del lavoro. Più in generale, nel nostro paese, anche a causa del modello culturale imposto da Berlusconi, dalle sue televisioni e dal suo governo, dobbiamo registrare un pesante regresso sul piano culturale per quello che riguarda la concezione della donna e del suo ruolo nella società, sempre più mercificato, spettacolarizzato, strumentalizzato. È questa una offensiva gravissima a cui tutte le donne europee devono reagire.
Tornando ai problemi strutturali, è sempre più evidente che lo sviluppo delle nostre società a capitalismo avanzato, e in particolare quello della condizione femminile, viene mortificato dalla ricerca dei massimi profitti e dalla crisi economica generale apertasi nel 2007.
Si possono riformulare le regole dell’economia in modo che ripartano dai bisogni della gente? Si può garantire il diritto al lavoro e la sicurezza sociale? Può esserci parola di donna nel delineare nuove politiche economiche?
Occorre far crescere la progettualità delle donne nelle politiche del lavoro e dello sviluppo, a livello delle comunità locali, delle nazioni, sul piano continentale e internazionale.
È una prospettiva che possiamo costruire, magari partendo dalle realtà, anche circoscritte, nelle quali ciascuna si muove, fino ad arrivare alla realtà globale.
Un esempio in questo senso è la proposta di legge sul reddito minimo garantito per tutti, nativi e migranti, giovani e donne, il che non significa arrendersi alla precarizzazione del lavoro, né a una visione assistenziale, ma significa ripensare un nuovo “welfare”, sostenere la crescita di un libero sviluppo individuale, e quindi anche delle donne, come condizione del libero sviluppo di tutti.
In questo senso anche l’ultimo piano europeo di rilancio economico fa emergere l’importanza dei modelli sociali che, in tempo di crisi, hanno dato prova della loro utilità. È molto difficile però che questi auspici dell’Unione Europea si tramutino in provvedimenti concreti. Al contrario è proprio in queste battaglie che le donne e le organizzazioni delle donne hanno un ruolo vitale da affermare. Un esempio importante è la stessa direttiva sulla maternità e la paternità di cui ci ha parlato la compagna Ilda Figueiredo.
In questi giorni abbiamo festeggiato la vittoria di una donna, Dilma Rousseff, nuovo presidente del Brasile. È un momento storico che segnerà la storia politica di un importante paese sudamericano ancora fortemente machista [3].
La vittoria di Dilma rappresenta un esempio significativo del fatto che le donne ce la possono fare: se tornano a organizzarsi sul piano locale, nazionale, continentale e internazionale, a lottare unite, a coordinare la loro lotta PER UN MONDO DI UGUAGLIANZA, DI LIBERTÀ E DI PACE!
NOTE:
1. Vedi i dati dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico) pubblicati nel marzo scorso, dell’ISFOL (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori) del 2009, di Banca d’Italia e di Manageritalia (organizzazione dei dirigenti d’azienda).
2. Barbara Pettine della Fiom commentando i dati della crisi che emergono dai dati Istat ha detto:
“Se fossero approvate le norme proposte dal governo si aprirebbe la strada alla contrattazione individuale con la possibilità di deroghe certificate e di scegliere l’arbitrato rinunciando alla possibilità di rivolgersi al giudice del lavoro. In sostanza sarebbero aggirati i contratti nazionali e si aprirebbe la strada a una giungla contrattuale in cui i più deboli sono destinati a soccombere. E i più deboli, evidentemente, sono i lavoratori che non potranno rifiutare quelle deroghe. Non si può spacciare per libertà di scelta quella che è destinata a tramutarsi in una deregolamentazione del mercato del lavoro. Le donne, che già sopportano il doppio carico di lavoro con la famiglia, sono colpite più degli uomini da malattie professionali perché le postazioni e i ritmi di lavoro non sono a misura del corpo delle donne e su di loro incombe la prospettiva dell’aumento dell’età pensionabile. Occorre una mobilitazione particolare delle donne e per questo abbiamo voluto segnare anche con nostre parole d’ordine la grande manifestazione nazionale della Fiom del 16 ottobre a Roma.”
3. Le stesse parole pronunciate nel suo primo discorso, aiutano a capire il cammino da compiere:
“Oggi ho ricevuto da milioni di brasiliani e brasiliane la missione più importante della mia vita. Questo avvenimento, al di là della mia persona, è una dimostrazione del progresso democratico del nostro paese: per la prima volta una donna sarà presidente del Brasile. È il momento di sottoscrivere quindi il mio primo impegno post-elettorale: onorare le donne brasiliane affinché questo avvenimento, finora inedito, si trasformi in un evento naturale. Che possa ripetersi e ampliarsi nelle aziende, nelle istituzioni civili, nelle entità che rappresentano tutta la nostra società. L’uguaglianza di opportunità per uomini e donne è un principio essenziale della democrazia. Mi piacerebbe molto che oggi i padri e le madri guardassero le proprie bambine negli occhi e dicessero loro: SÌ, le donne ce la possono fare!”.