Sei milioni e mezzo di tedeschi si trovano in una situazione di forte difficoltà economica e vivono uno stato di precarietà lacerante. Si tratta dell’8% della popolazione. Sono le cifre emerse in un recente studio commissionato all’Istituto Tns Infratest dalla Fondazione Friedrich Ebert, vicina al partito socialdemocratico (Spd). La statistica rivela poi la sostanza del problema con la separazione dei dati tra l’ovest e l’est del Paese: il 4% della popolazione è scivolata nella povertà in occidente contro il 20% delle regioni dell’ex Repubblica Democratica.
E’ il risultato di difficoltà economiche strutturali che la Germania affronta dalla riunificazione, certo. Ma secondo alcune voci nella Spd – della corrente di sinistra e non solo – è anche la conseguenza delle scelte sbagliate dell’ex-governo rosso-verde di Gerhard Schroeder. Con le riforme dello stato sociale e del mercato del lavoro, le leggi Hartz, l’ex-cancelliere avrebbe peggiorato la condizione degli strati più deboli della società. L’Hartz IV – ultima tranche delle riforme – è stata «un’illusione», ha riconosciuto il vice-capogruppo socialdemocratico al Bundestag Stefan Hilsberg in un’intervista rilasciata al quotidiano Tagespiegel. «Abbiamo fatto credere che tutti sarebbero entrati nel mercato del lavoro e che riducendo le imposte sulle imprese si sarebbe risolto il problema. Ma non è andata così, Schroeder ha riflettuto troppo poco». Della stessa opinione è anche Ursula Engelen-Kefer, vicepresidente uscente della Lega dei sindacati tedeschi: «Le riforme del governo rosso-verde hanno ampliato il numero dei lavori con basse retribuzioni e accresciuto la povertà».
Pronta ma non convincente la levata di scudi tra le file della Spd e tra gli alleati cristianodemocratici della grande coalizione di governo, guidata dallo scorso autunno da Angela Merkel: «Le riforme Hartz IV sono effettivamente migliori della loro fama», ha commentato Dieter Rossmann, anch’egli voce della sinistra socialdemocratica. «E da sole non potevano risolvere tutti i problemi del Paese», ha aggiunto il cristianodemocratico Ralf Brauksiepe.
Il profilo della Germania tracciato dalla ricerca è allarmante, ma, considerati gli oltre quattro milioni di disoccupati, non sorprendente. Il fatto inedito è che per definire questo 8% di popolazione lasciata indietro dalla politica di riforme, nei resoconti giornalistici ha preso piede un’espressione scomoda per la politica: Unterschicht, ceto basso. Per primo Kurt Beck, presidente della Spd, sulle colonne del Frankfurter Allgemeinen Sonntagszeitung aveva riconosciuto la scorsa settimana l’esistenza di una questione seria, «che alcuni definiscono il problema del ceto basso». Solo tre giorni fa la Bild am Sonntag – domenicale dell’editore conservatore Springer – aveva poi scelto di utilizzare lo stesso termine per definire quei 6,5 milioni di tedeschi fotografati dallo studio della Fondazione Ebert.
L’espressione distingue i “nuovi” poveri, individuati non solo in base al reddito. Si tratta di persone socialmente apatiche, abbandonate a se stesse, che hanno perso fiducia nel futuro al punto di smettere di cercare di migliorare la propria situazione. Soffrono di estrema incertezza finanziaria, reddito mensile molto basso, quasi nessun risparmio e non hanno il sostegno dei parenti. Anche tra le pareti domestiche patiscono la sensazione di non poter decidere della propria condizione. Due terzi hanno perso il lavoro. Gli altri vivono la propria occupazione come precaria. Molti sono convinti che tenere fuori gli stranieri risolverebbe i problemi. Il loro stile di vita condiziona anche l’esistenza dei figli, che difficilmente proseguono oltre la scuola dell’obbligo. Richiama alla memoria la descrizione del Lumpenproletariat, il sottoproletariato del Manifesto di Marx ed Engels, riveduta e corretta ad uso del ventunesimo secolo.
«Il tema della riduzione del’ampiezza della forbice sociale tra ricchezza e povertà riguarda tutti», ha dichiarato Angela Merkel in chiusura del vertice sulla famiglia con i rappresentanti del mondo economico e sindacale di lunedì a Berlino. Per la cancelliera la questione avrebbe meno a che fare con le possibilità economiche, che non con la famiglia e l’istruzione: una solida formazione culturale è il modo migliore per prevenire il degrado sociale. Eppure il governo di grande coalizione continua a sostenere l’introduzione delle tasse universitarie, anch’esse comparse nell’era Schroeder. Per il vicecancelliere e ministro del lavoro socialdemocratico, il ceto basso sarebbe frutto dell’invenzione di «sociologi fuori dalla realtà» e non dovrebbe avere quartiere nella discussione politica. «Non ci sono ceti in Germania -ma solo persone in difficolt».
La fine del Novecento aveva cancellato dal vocabolario politico l’uso, e dunque il senso, del termine «classe» – un tempo spesso preceduto da «lotta di». Oggi i politici della socialdemocrazia tedesca e i loro colleghi cristianodemocratici del governo di grande coalizione arrancano anche sulla definizione del termine «ceto», quantomeno quando si accompagna all’attributo «basso» o «poveroí». Per il segretario della Spd, Hubertus Heil, il partito socialdemocratico non riconosce, né tanto meno utilizza, l’espressione in questione. Anche il capogruppo cristianodemocratico Volker Kauder stigmatizza il termine, «perché lascia intendere che queste persone non possano essere raggiunte dalla politica». Meglio parlare di individui con «problemi sociali e díintegrazione», ha aggiunto.