Se sospendono la Costituzione

Mentre infuriano le polemiche sulle irriverenti motivazioni della condanna di Cesarone Previti & Co. nel primo grado del processo Imi-Sir/Lodo Mondadori, l’Italia arrostita dall’anticiclone africano celebra un esaltante anniversario. Un anno fa, di questi tempi, veniva approvata in Senato – guida imparziale il presidente Pera – la Cirami, madre di tutte le leggi-vergogna, atto notorio con cui l’attuale sedicente classe dirigente del paese formalizzava la propria determinazione a difendersi dalla galera ad ogni costo, «fino in fondo, fino in fondo, fino in fondo». Previti, in verità, ha sperimentato sulla sua pelle l’inadeguatezza dell’antidoto, ma sa che può dormire sonni tranquilli. A meno di imprevedibili sorprese, arriverà l’immunità parlamentare o la prescrizione o qualche altra porcheria ad personam. Intanto, nemmeno l’ultimo anno è passato invano. Alla collezione, già ricca di perle (il falso in bilancio, le rogatorie, lo scudo fiscale per i capitali all’estero, la riforma del Csm), si è aggiunto un autentico capolavoro, il “lodo” ammazza-processi. E già si annunciano nuovi traguardi: l’immunità, appunto, la Pittelli sull’avviso di garanzia, la depenalizzazione della bancarotta fraudolenta, la controriforma dell’ordinamento giudiziario.
Non intendiamo parlare di queste leggi né della massa di ragioni che autorizzano gravi dubbi sulla loro costituzionalità, sulla loro compatibilità con la separazione dei poteri, i principi di eguaglianza, ragionevole durata dei processi e obbligatorietà dell’azione penale, e con le stesse regole di revisione della Carta costituzionale. Rientra ormai nel senso comune democratico del paese la consapevolezza che, quando il governo in carica legifera in materia di giustizia (ma lo stesso vale per le televisioni e per l’intera partita del conflitto di interessi), non solo la Costituzione subisce colpi di maglio che ne mettono seriamente a rischio la tenuta, ma la natura stessa della legge – in principio norma astratta e generale – viene stravolta in nome degli interessi particolari del presidente del Consiglio e dei suoi più stretti «amici». Semmai, un grosso problema si pone proprio qui: che cosa significa per un paese convivere con questa consapevolezza? Quali contraccolpi ne derivano e ne deriveranno, nel lungo periodo, sul piano della sua etica diffusa, del senso condiviso della legalità e del pubblico, dello spirito civile, tutte doti che già di per sé non figurano tra le nostre più radicate virtù patrie.
Ma su tutto ciò in un’altra occasione. Oggi vorremmo soffermarci su di un’altra questione, connessa con questi argomenti ma dotata di una sua specificità. Si diceva poc’anzi che appare del tutto plausibile considerare incostituzionali o anticostituzionali molte leggi varate da questo governo. Con ciò ovviamente non si vuol dire che sono venute formalmente meno le istanze di controllo – presidente della Repubblica, Cassazione, Corte Costituzionale – cui il nostro ordinamento affida la salvaguardia della legalità costituzionale. Non si è verificato alcun colpo di Stato, non sono stati commessi illeciti nella composizione di questi organi, non si ha notizia di irregolarità nel loro funzionamento. A rigore, quindi, l’insistente diceria sulla incostituzionalità di molti provvedimenti assunti da questo governo (e, come si dirà, anche da quelli che lo hanno immediatamente preceduto) non ha ragion d’essere, di incostituzionalità potendosi parlare nel nostro sistema soltanto in presenza di un giudizio espresso in tal senso da un organo costituzionale deputato al vaglio di legittimità.
Senonché, il punto è proprio questo. Sul piano delle forme, le cose stanno sicuramente così. Ma sarebbe ipocrita – forse irresponsabile – far finta che non si diffonda via via nel paese una salda e motivata coscienza del contrario. Fingere cioè che non venga consolidandosi la ragionata percezione di una situazione di fatto caratterizzata dalla vigenza di norme incostituzionali (ovviamente non dichiarate tali) e dunque dalla sostanziale (benché tacita) sospensione di parti del dettato costituzionale. In realtà, si ha la fondata impressione che, al di là del piano formale, sia profondamente cambiata – per ragioni e con conseguenze cui si cercherà qui di accennare – la fenomenologia della incostituzionalità. Come se si fosse scelto di ripiegare su «violazioni legali» della Costituzione per realizzare quella Grande Riforma che non si è riusciti a compiere nel rispetto delle regole durante la lunga transizione (ancora in atto) dalla «prima» alla «seconda» Repubblica.
Norme incostituzionali, dunque, non mere illegalità di fatto. Di queste naturalmente potremmo fare un lungo elenco (a cominciare dall’elezione in Parlamento di un titolare di concessioni pubbliche, per di più già iscritto ad una criminale associazione segreta coinvolta in alcuni tra i peggiori misfatti della storia repubblicana), ma si aprirebbe con ciò un altro discorso, relativo alla flessibilizzazione di fatto della Costituzione, il cui dettato è sovente obliterato da contingenti accordi tra le forze politiche. Di per sé preoccupanti, tali violazioni «di fatto» sono ulteriormente aggravate quando mettono a capo a norme di legge, che forniscono loro una paradossale sanzione di legalità. Per uscire dal vago, cominciamo con alcuni disparati esempi.
Si accennava poc’anzi ad alcune leggi sulla giustizia varate da questo governo e ai principi costituzionali che esse violano. A tale riguardo vale la pena di ricordare ancora la mozione approvata dal Senato il 5 dicembre del 2001, con la quale un ramo del Parlamento ha inteso prescrivere a un tribunale della Repubblica una determinata interpretazione della norma, allo scopo di predefinire l’esito di un dibattimento. Forse avevano in mente questo illustre precedente i consulenti del ministro della Giustizia quando hanno escogitato di affidare alle Camere una expertise sul “lodo” Schifani. Ma non c’è solo la giustizia, né tutta questa storia comincia con la nascita del secondo governo Berlusconi. Da otto anni l’Italia partecipa ad operazioni belliche (ancora oggi migliaia di militari italiani sono impegnati in Afghanistan e in Iraq), in palese e reiterata violazione dell’art. 11 della Costituzione. Bene ha fatto Pietro Ingrao a porre con insistenza la domanda chiave: qualcuno ha forse abrogato questo articolo? Nessuno gli ha risposto, evidentemente perché non c’è risposta possibile. Questo governo e quello che l’ha preceduto hanno varato diverse leggi di «riforma» della scuola dell’obbligo che hanno legittimato il finanziamento pubblico a istituti privati: qualcuno ha forse abrogato l’articolo 33 della Costituzione? Questo governo e quello che l’ha preceduto hanno varato leggi sull’immigrazione che legittimano la detenzione in assenza di reati penali e che sanciscono trattamenti discriminatori su base «razziale»: qualcuno ha abrogato l’articolo 3 della Costituzione? Qualcuno ha provveduto a introdurre nel nostro ordinamento la figura della detenzione amministrativa?
Si potrebbe proseguire a lungo. Richiamare recenti provvedimenti in materia fiscale che confliggono col principio della progressività dell’imposizione. Ricordare la sostanziale abolizione del diritto d’asilo consacrato dall’articolo 10 della Costituzione, e il sistema di leggi che consentono l’alienazione del patrimonio ambientale e storico-artistico che la Costituzione considera intangibile bene collettivo. Evocare l’esempio paradigmatico della Gasparri che, ove approvata, cristallizzerebbe una situazione di fatto già dichiarata dalla Consulta e dall’Autorità anti-trust non conforme al dettato costituzionale e alle norme europee. La sostanza non cambierebbe. E la sostanza sembra essere che viviamo in una situazione di endemica crisi di legittimità, il cui connotato saliente è costituito dalla durevole compresenza, nel nostro ordinamento, di norme incompatibili tra loro e con la Carta fondamentale. Viviamo in uno stato di crisi somigliante alla malattia di un sistema immunitario (per cui un organismo non è più in condizione di espellere corpi estranei o parti di sé incompatibili con il proprio ricambio fisiologico e con la sua stessa identità), al collasso di un quadro discorsivo (conseguente alla sistematica violazione del principio di non-contraddizione) o alla dissoluzione di un codice linguistico (dovuta all’impossibilità di riferirsi a un qualsiasi sistema di corrispondenze tra significanti e significati).
Ci sono due modi di reagire a questa situazione. Il primo, corrente, consiste nel porre in risalto i contraccolpi materiali di questa crisi, gli effetti perversi dei singoli provvedimenti sul loro terreno d’influenza (la scuola, il processo, le politiche sociali, ecc.), e nell’attivare di volta in volta contromisure efficaci nei diversi ambiti. Ma ce n’è un secondo – che forse meriterebbe di essere finalmente praticato – che implica domandarsi quali conseguenze di ordine generale una situazione del genere produca sulla natura stessa delle norme e dell’ordinamento giuridico. Si diceva poc’anzi che è in corso un mutamento nella «fenomenologia della incostituzionalità». Ma la fenomenologia riflette un terreno sottostante, che attiene all’essenza della legge. Essa muta in profondità, una volta indebolito – o abolito – il vincolo della legittimità costituzionale. Muta in un senso ben preciso, che sarebbe riduttivo interpretare come una semplice caduta della razionalità e della coerenza complessiva dell’ordinamento. C’è di più. C’è in gioco – questa è l’impressione – una mutazione dell’ordinamento giuridico (e del sistema politico) che obbedisce all’istanza di de-oggettivare il processo di formazione delle norme e di legittimare, per converso, la decisione del soggetto (in carne ed ossa) dotato di potere.
A questo punto il discorso dovrebbe ampliarsi ben al di là dei confini nazionali, essendo in questione con ogni probabilità i caratteri della crisi politico-storica oggi attraversata da tutte le democrazie occidentali. Basti qui, per concludere, osservare come questa tendenza alla soggettivazione (e personalizzazione) del potere costituisca – insieme al prepotente ritorno della guerra come forma corrente della relazione internazionale – uno dei tratti più nitidi di analogia tra la situazione odierna e la transizione verso «democrazie plebiscitarie» che si compì in gran parte dell’Occidente capitalistico tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso. La soggettivazione della decisione politica libera l’arbitrio del capo politico dai vincoli delle procedure e della partecipazione. Autorizza la discrezionalità, conferisce legittimità al complesso delle forze prevalenti per il solo fatto che sono dotate della capacità di prevalere. Da questo punto di vista sarebbe consigliabile prestare maggiore attenzione al ritorno (non solo in Italia) del tema carismatico e ai molteplici sintomi di regressione al patrimonialismo (con tanto di teorizzata confusione tra interessi pubblici e interessi privati dei potenti).
Con tutto ciò, è chiaro che non siamo tornati indietro di settant’anni. Ci troviamo, tutt’al più, all’inizio di un processo. Il timore è tuttavia che, una volta messo in moto, un processo del genere tenda ad autoalimentarsi, acquisendo via via una crescente massa d’urto. Davvero non sarebbe piacevole svegliarsi un giorno di questi e scoprire ad un tratto di trovarsi in una situazione del tutto diversa da quella descritta nella Costituzione repubblicana. Senza nemmeno essersi accorti del cambiamento in atto.