Se si rompono gli argini dell’Oltretevere

Non è la prima volta che la partita di un referendum si gioca intorno al raggiungimento o meno del quorum. Ma è la prima volta, credo, che la contrapposizione si svolge pressoché esclusivamente tra i sostenitori del sì e quanti propongono l’astensione, ossia il fallimento del referendum stesso. È il frutto di una scelta tattica, nata evidentemente dalla consapevolezza dell’impossibilità di raccogliere una maggioranza di no intorno ai quattro quesiti proposti, e che dunque ha ritenuto conveniente servirsi di quella più o meno ampia quota di italiani che comunque non sarebbero andati a votare (per disinteresse alle questioni della cosa pubblica, per pigrizia, per rifiuto delle istituzioni o che altro ancora), con il palese intento di raggiungere così una maggioranza di consensi (apparenti) che si profilava altrimenti impossibile. Protagonista di tale scelta è stata la Conferenza episcopale italiana, e per essa il cardinale Ruini. Ed è qui che si apre più di un problema: riguardo ai rapporti Stato-Chiesa, alla laicità dello Stato, al ruolo del laicato cattolico nella società civile e alle sue responsabilità rispetto alle «realtà temporali».

Credo che a questo proposito si debba essere chiari. La questione infatti non nasce dal fatto che l’episcopato abbia espresso le proprie idee e il proprio punto di vista sui problemi etici connessi ai quesiti proposti: nessun sistema politico rispettoso dei diritti individuali e collettivi vorrà loro negarglielo. Ma i vescovi non si sono limitati a questo, perché indicando l’astensione come la via da seguire sono entrati nel campo della tattica e delle scelte politiche, con tutto il peso della loro autorità morale. Non a caso si è detto che un vero cattolico dovrebbe attenersi a tale indicazione, non a caso si è parlato di obbedienza dovuta dai fedeli. E con tale appello hanno trovato stuoli di politici dei più diversi orientamenti, improvvisamente scopertisi cattolici obbedienti, e schiere compatte di associazioni cattoliche pronte a seguirli.

Non è certo un fatto nuovo nelle lunga storia dell’Italia repubblicana, ma è un fatto relativamente nuovo nella storia della II Repubblica, e anche nella stessa storia della Chiesa postconciliare, se non altro perché in questo caso sono state estremamente limitate le voci di cattolici, che in quanto laici e cattolici hanno rivendicato non solo la responsabilità personale delle proprie scelte ma anche i diritti dello Stato a legiferare in termini non necessariamente legati ai criteri e ai principi della morale cattolica, come invece era largamente avvenuto in occasione dei referendum sul divorzio e sull’aborto.

Sono segnali negativi sulla condizione della consapevolezza civile e del senso dello Stato presenti nella nostra società, ma, penso si possa aggiungere, segnali negativi anche per ciò che attiene agli orientamenti di fasce non irrilevanti di cattolici e di cittadini in ordine a tali problemi. Perché gli interventi e le indicazioni della conferenza episcopale profilano una situazione che sembra proporre nuovamente l’episcopato sia come guida politica delle scelte concrete dei cattolici, sia come maestro autorevole della legislazione che lo Stato, e i cattolici in esso devono perseguire e sostenere.

Nasce da qui l’importanza specificamente politica dei risultati del referendum, al di là di ciò che esso significa per la ricerca scientifica e per la salute individuale e collettiva. Fa parte di una tradizione italiana che risale quantomeno al ventennio fascista la scarsa sensibilità dei rappresentanti e degli organi dello Stato per la sua laicità, e per le contaminazioni tra religione e politica che ne minano la consistenza: una tradizione cui solo assai lentamente e con fatica si è cercato di porre rimedio.

Non si tratta, com’è evidente di meri principi astratti: la neutralità dello Stato di fronte alle fedi e alle religioni rappresenta un atteggiamento essenziale nel nostro tempo, nella prospettiva più che mai attuale del progressivo formarsi di società multietniche e multireligiose in Europa come in Italia, con tutto ciò che questo comporta in ordine alla convivenza reciproca, all’individuazioni di terreni d’incontro, di punti di riferimento comuni e via dicendo.

Gli orientamenti emersi in occasione del referendum, le motivazioni etiche e politiche che hanno accompagnato l’allineamento di non pochi rappresentanti delle istituzioni e della politica alle indicazioni dell’episcopato, rappresentano un chiaro segnale che si intende tentare di battere una strada esattamente opposta: senza voler forzare i toni sembra difficile non ricordare gli appelli al fondamentalismo religioso che hanno accompagnato la rielezione di Bush, e che tanto sembrano tentare i nostri «atei devoti».

È da questo punto di vista che il raggiungimento del quorum, con la conseguente vittoria dei sì, rappresenterebbero una significativa battuta d’arresto e un segnale di allarme per quanti aspirano di poter costruire così le proprie fortune politiche, sia riproponendo situazioni che la coscienza civile e religiosa italiana sembrava aver almeno in parte superato, sia prospettando il costituirsi di un blocco inedito che tanto sul piano interno che sul piano internazionale prefigurerebbe una nuova reciproca strumentalizzazione tra Occidente e religione. Sarebbe il segno che la maggioranza degli italiani ha compreso la portata piena della posta in gioco.