Se potessi avere mille euro al mese

Una vita da precario. È la vita della generazione che oggi ha fra 25 e 40 anni, senza un lavoro fisso. Sono quelli dei contratti a tempo, i co.co.co che ormai sono diventati co.co.pro. Quelli che non ce la fanno a metter su una famiglia, che dipendono dai genitori, che hanno una laurea, qualche stage non pagato e che, per mettere insieme un pugno di euro, debbono conciliare due, tre, quattro lavori. Call-center, produzione di format televisivi, MacDonald’ s, doposcuola gestiti da cooperative, tecnici del web, videografica, pulizie di edifici pubblici appaltati da ditte, camerieri part-time: la varietà delle occupazioni è tanta, ma la sostanza non muta. Su tutti comunque incombe il ricorso alle agenzie di lavoro interinale dove si offrono contratti per sette giorni e non si può nemmeno troppo storcere il naso, perché poi sennò uno non viene più chiamato. A questo mondo di persone flessibili e senza futuro Aldo Nove ha dedicato una serie di interviste apparse su Liberazione fra il 2004 e il 2005 e che ora sono raccolte in Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese . I nomi dei quattordici intervistati, dice, sono stati cambiati, ma le storie sono tutte vere. C’ è molta Milano, che è ancora la città dove si arriva con il miraggio del lavoro, soprattutto quello di nuovo tipo; c’ è Napoli, la Sicilia, la Sardegna. Ci sono quelli che a un certo punto se ne vanno: come Cilia (call center, distribuzione di volantini e altre cose simili) che segue il fidanzato a Londra e scopre che lì i job center funzionano davvero; o Riccardo, programmista regista in una società che produce format per la Rai, che vuole tornare in India. Altri invece resistono o, almeno, ci provano. Come Carlo di Caltagirone, ventiquattro anni, quattro lavori, tre ore di sonno a notte: comincia alle 5 del mattino con le pulizie all’ ospedale, poi il lavoro di assistenza docenti in un istituto di recupero degli anni scolastici, poi ancora la società che gestisce le scommesse sui cavalli e sul calcio, infine l’ aggiornamento delle liste elettorali al Comune. Il tutto per circa mille euro al mese. Comune a tutti l’ amarezza di chi ha visto andare al macero le convinzioni politiche, le utopie; ma anche la delusione cocente per aver creduto nella «magica occasione» del successo, nelle prospettive della new economy, nei miti creati dalle trasmissioni tv. Molti votano ancora a sinistra, qualcuno tenta di riprendere un discorso sindacale, altri ragionano sulla legge Biagi (ne è stata applicata solo una parte, dice Luigi, laurea in giurisprudenza, assistente non pagato all’ università, avvocato a 400 euro al mese e cameriere di ristorante alla domenica: manca del tutto la tutela dei precari, il sussidio di disoccupazione; così serve solo a far risparmiare alle aziende il 33 per cento). Fino a qui le storie vere. Ma Nove fa precedere a ogni intervista una sorta di introduzione. In cui tenta di capire, farci capire come e perché tutto è andato a finire così. Perché la realtà è diventata questo «immenso telefilm», in cui la «generazione senza futuro» si è trovata a vivere senza nemmeno un presente. Questi testi di corredo permettono a Nove di proporci un po’ di bibliografia: Hegel e il situazionista Guy Debord, Nanni Balestrini, il drammaturgo Heiner Mueller, Baudrillard, Blob, il film La classe operaia va in paradiso di Elio Petri, Tiziano Scarpa, Tommaso Labranca. E dei giovani scrittori (Andrea Bajani, Sergio Bianchi, Francesco Dezio) che compongono una nuova leva di letteratura del lavoro, ma non ricevono attenzioni da una critica innamorata di scrittori «rilassanti e consumabili». Strada facendo, Nove rifà la propria storia di scrittore che aveva iniziato – come gli altri della generazione «pulp», o cannibale, dal nome di una fortunata antologia – per testimoniare (e sarcasticamente esaltare) la trasformazione del mondo in trash, spazzatura: slogan, marchi, pubblicità, violenza spettacolare e tette. L’ idea era che stesse per iniziare una grande festa. Che non ci fu. Questa la conclusione: «La realtà superò il sarcasmo della letteratura che ne deformava i difetti e tutto cadde nel baratro dell’ incertezza contornata da sfavillanti colori». Quando però i quattordici intervistati cominciano a parlare, anche il contorno ha perso colori e brillantezza: tutto è diventato uniformemente grigio.