Come si legano precarietà e finanziarizzazione? Come è cambiata l’economia mondo? Domande a cui è possibile rispondere con analisi spesso ponderose e complesse, sempre in ritardo rispetto alla velocità supposta dei mercati. Eppure qualcosa che serva all’oggi si può fissare ed è quello che hanno provato a fare Riccardo Bellofiore e Francesco Garibaldo, rispettivamente direttore del Dipartimento d’economia dell’Università di Bergamo e direttore dell’Istituto per il lavoro, in un seminario a porte chiuso promosso da Uniti a sinistra.
Partiamo da Garibaldo e dall’analisi proposta da diverse istituzioni internazionali (Fmi in testa) preoccupate da un quadro economico da primi anni del Novecento, con una stabilizzazione anti-inflattiva che non funziona più. Il rischio concreto, come scrive in maniera perentoria la Banca internazionale dei regolamenti, è che con poca inflazione la deregolamentazione e la finanziarizzazione globalizzate determinino «un serio crollo macroeconomico nel medio termine». Viviamo in un sistema fortemente instabile, dove il rapporto tra crescita e miglioramento sociale non esiste più e in quasi tutto il mondo le diseguaglianze non vengono ridotte dallo sviluppo. Vale macroscopicamente per la Cina come per gli Usa (dove si è tornati esattamente alla distribuzione del reddito di cento anni fa).
Come è successo? Prova a spiegarlo Bellofiore partendo dall’eredità degli anni ’80 e del falso keynesismo di Reagan e Thatcher fatto di meno tasse, più industria bellica, feroce liberismo all’esterno e protezionismo interno. » l’epoca in cui Usa, Est asiatico e Ue trainano la regionalizzazione dell’economia globale alla caccia del lavoro al minor costo grazie alle nuove tecnologie. Il mito del capitalismo mordi e fuggi punta alla glocalizzazione del proprio investimento in aree e settori strategici. L’unica globalizzazione vera e propria si ha nel settore finanziario, il centro di controllo della rete. Con gli anni ’90 Usa ed Est asiatico si integrano sempre più attraverso i fondi di investimento e quelli pensione. E il primo vero fenomeno della globalizzazione che riguarda il lavoro è la sua sussunzione alla finanza, con l’azionariato dei lavoratori in cerca sul mercato finanziario del benessere che salari e stipendi non garantiscono più. Il mercato entra nell’organizzazione del lavoro col miraggio del capitalismo di rendita diffuso, che massimizza il valore azionario. Licenziare paga in borsa, migliora l’investimento, e il risparmiatore gioca la sua scommessa contro il lavoratore.
Intanto le ristrutturazioni produttive, le terziarizzazioni e le delocalizzazioni cambiano il lavoro: non più norme e rendimenti di produzione, ma flessibilità di obiettivi e performance. La tesi della “fine del lavoro” degli anni ’80, che identificava nella riduzione del tempo di lavoro la frontiera del nuovo modello tecnologico di produzione, non si avvera. I dati parlano di una colonizzazione del tempo di vita, di lavoro senza fine. Ed è proprio la fase della “nuova economia” a spazzare via del tutto i dubbi: boom di assunzioni ed estensione dei tempi di lavoro. Se negli anni ’60 per assumere si doveva crescere del 5%, alla fine dei ’90 bastava il 2%, in Italia anche meno. Il peso della precarietà fonda qui una delle sue ragioni economiche. Anche la politica economica torna a essere centrale dagli Usa dove la via alta all’economia della conoscenza viene sorretta da due fenomeni simmetrici: precarizzazione e finanziarizzazione. Una lezione che “i moderati” tardono ancora a imparare.
Il boom della nuova economia (1995-1999) aumenta la produttività soprattutto nella grande distribuzione commerciale (il modello Wal Mart) e per i prodotti finanziari. La novità non è tecnologica, ma borsistica e monetaria, sostenuta da una precisa scelta di politica economica. La disoccupazione in Usa si riduce e la Federal Reserve, invece di stringere l’offerta di moneta secondo la teoria dominante, sceglie un’altra strada: «Viviamo in una situazione di lavoro spaventato», afferma Greenspan. Nonostante aumenti l’occupazione i salari rimangono al palo, incertezza e precarizzazione mettono a rischio i consumi e il modo per sostenerli passa dai fondi pensioni, dall’economia di carta che dà l’illusione alla famiglie americane di poter mantenere il loro livello di vita grazie alla borsa. Un politica economica fondata sul debito privato in sostanza, che innesca la destabilizzazione. La data dell’inizio della grande paura americana, non è l’11 settembre 2001, ma il maggio 2000 con l’accelerazione della crisi che spinge Bush ad abbassare le tasse (all’inizio solo ai più ricchi) e Greenspan ad abbattere i tassi di interessi fino allo zero reale. Il consumo regge e l’intermezzo, si potrebbe dire, keynesiano dura fino al 2003, grazie ai pilastri d’argilla della ripresa: il lavoratore spaventato e il consumatore indebitato. E il meccanismo dell’indebitamento diventa inarrestabile con la rinegoziazione dei mutui e la bolla immobiliare.
Dall’altra parte del mondo, dal 1989 è in corso un altro terremoto: un miliardo di nuovi lavoratori entrano in scena sul mercato mondiale. Cina, ex Urss e Sud-Est asiatico raddoppiano l’offerta di lavoro mondiale in pochi anni. Partendo da un livello di salari bassissimi, paragonabili ai nostri degli anni ’50, crescono a rotta di collo, in un contesto dove i lavoratori hanno minore possibilità di conquistare una parte di redistribuzione della produttività. La struttura sociale non sembra essere intaccata dalla crescita e in Cina i salari possono restare bassi per scelta politica, con un esercito industriale di riserva enorme: 100 milioni di lavoratori da usare per gli aggiustamenti ciclici dell’economia. Il ponte tra Usa e Cina è questo: l’Oriente acquista titoli di Stato Usa per evitare una svalutazione selvaggia del dollaro e continuare ad esportare nel mercato che traina e consuma più di tutti. » il nesso tra la fabbrica mondo cinese e il consumatore indebitato statunitense.
Il capitalismo governa il mondo, la sua espansione orizzontale è quasi completa e si concentra su portare a regime di mercato parti sempre più ampie delle attività umane. Tralasciando il nesso con beni comuni, brevettabilità della vita stessa e Wto, torniamo a Garibaldo che propone una considerazione sull’espansione verticale: in una serie di settori maturi, l’auto o gli elettrodomestici ad esempio, siamo in crescita di consumi mondiali ed eccesso di capacità produttiva. Sembra paradossale, ma è così. Molta delocalizzazione è fatta di fabbriche che si spostano dove i prodotti vengono richiesti. Rosa Luxembourg fu screditata per aver teorizzato il dominio del capitalismo in una fase di crisi di sovrapproduzione, ma è quello che sembra succedere; insieme a un altro fenomeno caro a Marx: la concentrazione. In quasi tutti i settori dell’economia mondo, le prime 3-8 imprese assorbono almeno il 50% del mercato ed è la mediazione finanziaria che permette nei processi di ristrutturazione e riposizionamento di distribuire crisi e grandi guadagni.