Si è detto, con qualche ragione, che Romano Prodi ha reagito in maniera spropositata alla decisione dello stato maggiore della Margherita di presentarsi con una propria lista alle prossime elezioni politiche nel proporzionale. Dopo tutto si tratta del 25% dei collegi e non è nemmeno detto che questa scelta non serva ad aumentare il saldo finale del centrosinistra in termini di voti. Ma queste considerazioni eludono il dato politico posto in evidenza dal conflitto tra Rutelli e Prodi e cioè il fatto che l’unità tra i partiti dell’opposizione non esiste più, che l’Unione (nome che evoca un bisogno e una speranza) è in frantumi. Come si spiega il dissolversi in poche ore di quello che era parso un robusto aggregato di forze, in grado di sbaragliare l’avversario? Questa sembra essere la morale della faccenda: i fatti hanno la testa dura e si vendicano di chi pretende di non tenerne conto. Quali fatti? Molto semplicemente, la politica, quella fatta di cose concrete, di interessi, di bisogni, di progetti, tutte faccende estremamente serie, spesso poco maneggevoli, di cui il nostro ceto politico non ama occuparsi. Da quindici anni a questa parte non si parla che di persone (anzi di leader), di formule, di ingegneria istituzionale. Da ultimo ci si è illusi di risolvere ogni problema con l’antiberlusconismo, pensando che bastasse unirsi contro, che ci si potesse risparmiare la fatica di capire in che misura fosse possibile anche unirsi per.
Oggi i nodi vengono al pettine. Si può anche prendersela con il presidente della Margherita («er sor cicoria»), ma serve a poco. E fa perdere di vista il fatto che la vera anomalia italiana (frutto dell’ubriacatura degli anni Novanta, quando si ritenne che il maggioritario e la personalizzazione della politica fossero panacee) consiste semmai in ciò, che il capo di una delle due coalizioni che si contendono il governo del Paese non ha dietro di sé nessuna forza politica organizzata che davvero risponda alle sue indicazioni. I nodi dunque vengono al pettine e bisogna affrontarli seriamente, se si vuole salvare la barca del centrosinistra da un probabile naufragio. Ma come fare?
Se abbiamo colto nel segno, la risposta è scontata: ricominciando a parlare della società, delle classi che la compongono, dei loro bisogni; ricominciando a misurarsi e a dividersi su questo terreno. Anche a dividersi, anzi proprio questo è il punto. Perché delle due l’una. O si guardano in faccia le divisioni che esistono (che non potrebbero non esistere in un Paese in cui le rendite si moltiplicano e gli stipendi dimagriscono a vista d’occhio) e su questa base si lavora per costruire compromessi accettabili. Oppure si fa finta di niente e si continua a dire (com’è accaduto da ultimo a Giuliano Amato in un articolo esemplare apparso sulla Repubblica il 23 maggio) che una «piattaforma comune» c’è già, che esiste già un «grande serbatoio» di principi, orientamenti condivisi e documenti programmatici. Per cui possiamo stare tranquilli e continuare a discutere di formule e contenitori, salvo poi scoprire – magari all’ultimo momento, quando si tratta di prendere decisioni e manca persino il tempo per riflettere – che non è vero niente, che sulla guerra, i diritti del lavoro e di cittadinanza, il welfare non si è per nulla d’accordo, si hanno idee diverse, convinzioni diverse, aspirazioni diverse.
Resta un ultimo punto da mettere in chiaro. Sbaglieremmo pensando che le varie forze oggi all’opposizione si trovino nella stessa situazione. Non è così. La Margherita può guardare avanti con relativa fiducia, forte di un saldo rapporto con il blocco sociale (ceti medi, grande impresa, banche, Vaticano) che garantì l’egemonia democristiana. Quel che resta della sinistra è in condizioni ben diverse, soprattutto a causa del conflitto tra gli interessi di gran parte del suo elettorato e gli orientamenti della dirigenza politica, perlopiù ammaliata dalle sirene della modernizzazione neoliberale. Le responsabilità che questa asimmetria affida alla sinistra di alternativa sono enormi. Essa avrebbe il compito di operare – con una battuta – affinché la sinistra italiana torni ad essere sinistra. Ma per questo dovrebbe anch’essa cambiare strada: smetterla di partecipare alla «grande diceria» su capi, capetti e formule, e dare coraggiosamente (e, se possibile, unitariamente) battaglia sui programmi, dicendo senza reticenze come pensa di volere trasformare questa società. È difficile ma è indispensabile. A meno che non si voglia fare a Berlusconi il regalo di un’altra vittoria elettorale, magari per compensarlo della dura batosta di Istanbul.