«Io non sono razzista, ma…». Questo è il grido di guerra di chiunque si appresta a spararle grosse in tema di immigrazione. Quel “ma”, collocato opportunamente dopo la negazione, ci apre davvero un mondo: negando inizialmente di essere razzisti, si può dire quello che si vuole. Una volta, per esempio, un cosiddetto intellettuale, che qui non cito solo per carità, ha dichiarato che i veri razzisti sono quelli che negano la scientificità del concetto di “razza”. Qui gli esempi sono innumerevoli. La ricerca ci porterebbe non solo in una certa pubblicistica di estrema destra, ma anche in mondi molto più profumati e persino accademici. Siamo in ogni modo dalle parti del revisionismo: basti pensare che perfino Indro Montanelli, che alla fine della sua carriera divenne un’icona dell’antiberlusconismo, negò sino all’ultimo, contro ogni evidenza e prova storica, che gli italiani avessero usato i gas nella guerra d’Etiopia.
Ma questo razzismo, nostalgico o ideologico, revisionista o utopico, non è il caso peggiore, perché è il più riconoscibile. Infinitamente più pericoloso, perché dissimulato, implicito, talvolta travestito da progressismo o da scientismo neutrale, è quello che interiorizza o discrimina gli altri a prescindere. Parafrasando Hannah Arendt, lo definirei razzismo di superficie o della banalità. La sua arma preferita è la generalizzazione, il suo metodo è l’analogia, la sua casa è il luogo comune. Se viene uccisa una donna italiana, sposata a un tunisino, chi è l’assassino? Se un cittadino pachistano e islamico uccide la figlia, perché l’ha fatto? Se uno è clandestino, non viola forse la legge? L’essere tunisini, islamici o privi di documenti si trasforma, da dato di fatto, per lo più anagrafico, in spiegazione degli eventi. A questo punto, la parola razzismo risulta persino inadeguata, perché chi fa queste domande (rispondendosi da solo) rifiuterebbe con sdegno la qualifica di razzista. Purtroppo, data la diffusione di questo modo di ragionare, c’è da chiedersi se il vero problema non stia altrove.
Non c’è bisogno di postulare l’esistenza delle razze e di inferiorizzarne alcune, per essere razzisti, oggi. Basta assumere una serie di presupposti, più o meno taciti, ma sempre operativi: che l’immigrazione produca automaticamente aumento della criminalità; che l’islam significhi sempre e comunque fondamentalismo, che la cultura degli altri entri in conflitto con la nostra; ma anche che i sudamericani si raccolgano sempre in bande, che i rapinatori in villa siano albanesi, che gli zingari rubino, che gli stranieri si possano aiutare solo a casa loro e così via – esattamente come quarant’anni fa i “terroni” facevano figli come conigli, i siciliani erano sempre infidi, i sardi cocciuti e, visti dalla Svizzera, dagli Usa o dalla Germania, gli italiani rumorosi, mafiosi o vigliacchi. Qui non siamo nemmeno davanti a un ragionamento induttivo: dal particolare al generale. Perché in tutti questi casi sia il particolare, sia il generale sono immaginari.
Ma le immagini – in forma di chiacchiera da bar, slogan, titolo di quotidiano, ricerca sociologica da strapazzo, ammonimento politico – contano, pesano come pietre. Formano fantasmi che prendono il posto della realtà, che notoriamente non si fa sintetizzare in qualche frase. Eccolo dunque il vero razzismo, o comunque oggi più dilagante: quello che inchioda l’altro alle sue supposte (e presupposte) origini e caratteristiche culturali, sociali, etniche o, al limite, razziali. E, inchiodandolo, lo esclude, lo mette ai margini, lo abbassa, lo costringe ad accettare ogni subordinazione, umiliazione o condizione: in una coda per il rinnovo dei permessi di soggiorno, nel cantiere, per strada, nel commissariato, sotto l’occhio della padroncina di casa, del prete o dell’imam, persino nella mensa dei poveri, in una nota a pie’ di pagina del dotto saggio, nella pratica del funzionario, nella carità pelosa, persino nelle chiacchere multiculturali.
Eh, se il razzismo fosse solo quello di Julius Evola, come sarebbe serena la coscienza della società democratica, e senza rughe la fronte degli studiosi. Ma così non è. Perché, come diceva un grande sociologo, quello che la presenza degli stranieri o dei migranti fa (o dovrebbe fare) è costringere la società detta ospitante a tirar fuori quello che davvero c’è nelle sue viscere. E allora, il senso profondo del razzismo diffuso, banale, superficiale non sarà proprio l’incapacità di guardare dentro la nostra società, il nostro modo di vivere e la nostra idea di cittadinanza?