Se ci dividessimo di meno

Mi riesce difficile oggi, sabato 18 gennaio, scrivere sulla divisione che infuria fra le sinistre mentre si annuncia nelle prossime ore o giorni l’attacco degli Stati uniti, con o senza il via delle Nazioni unite, all’Iraq. Che dico, non si annuncia, si accelera perché l’annuncio è stato dato da mesi. Dopo l’attacco terrorista alle Twin Towers l’occidente si è scagliato contro l’Afghanistan, colpendo i talebani ma non al Qaeda, e riconsegnando il paese ai signori della guerra. Adesso gli Usa dispiegano la loro poderosa macchina di guerra contro uno dei pochi paesi del Medio oriente che con al Qaeda non ha a che fare. L’Iraq ha un regime pessimo ma non è un pericolo, ha il torto di possedere uno dei più grossi giacimenti di petrolio e invaderlo permetterà agli Stati uniti di collocarsi nel Medio Oriente stabilmente, rivolgendo lo sguardo e la potenza di fuoco al solo loro grande concorrente mondiale in Asia, la Cina. Fra qualche giorno sentiremo del massacro di cento, duecento o trecentomila iracheni, che la volta scorsa sotto i tanks del generale Schwarzkopf non ha fatto notizia; ne hanno fatta di più i reduci americani colpiti dalle conseguenze dell’uranio impoverito che gli avevano lanciato contro. Può darsi che il dispiegamento di 250.000 soldati americani e 25.000 inglesi basti a rovesciare Saddam, sarà una vittoria ma non politica, bensì di guerra. Certo se trasformazione dell’Iraq in zona sotto controllo statunitense ha da essere meglio che sia senza centinaia di migliaia di morti, ma sempre un atto di guerra è. E non sarà un’operazione chirurgica pesante ma definitiva; la presenza non più di sole basi ma diretta degli Stati uniti nel cuore del Medio Oriente non farà un deserto che chiameranno pace, produrrà convulsioni nelle quali cresceranno fondamentalismo e terrorismo, lacerando ulteriormente l’Islam. Tutto questo è stato già detto.

Nulla è inatteso, anzi mai una guerra è stata cosi annunciata e conclamata, spostandone soltanto la data; oggi sì, domani forse no, l’andirivieni che ci ha assuefatto più che allarmato. Anche se mai così flagrante è stato il pretesto: cercare nell’Iraq, fin dal 1992 disarmato, tracce di armi di sterminio, della cui esistenza gli Stati Uniti si dicono certi per la sola ma buona ragione che glieli avevano forniti loro, quando per loro conto Saddam faceva guerra all’Iran. Sono assai impazientiti che Blix non le abbia trovate ancora, perché preferirebbero avere la benedizione delle Nazioni unite, ma siccome questa lunga commedia ha fatto nascere molti dubbi nelle cancellerie, ci andranno anche da soli, ci ha comunicato ieri la colomba Powell. Sfidando ogni altro governo ad allinearsi. Ma siccome un voto unanime al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite sarà difficile, daranno un colpo decisivo all’autorità dell’Onu, dimostrandola impotente, come già aveva fatto Sharon: per gli Usa e per Israele le risoluzioni dell’Onu sono insignificanti.

In questa impresa l’Italia starà dalla parte dell’amministrazione americana, piaccia o non piaccia, giacché abbiamo consegnato il paese a questo governo, come gli inglesi hanno votato Tony Blair. Oggi hanno un bel dichiarasi all’87 per cento contro la guerra, non è un sondaggio che ferma un esecutivo. Né Bush sarà fermato dalle grandi marce di ieri su Washington e in molte altre capitali. Nei paesi, come nei corpi, ci sono malattie che vanno prese a tempo se no diventano irreversibili e la debolezza dei Democratici, assieme al traccheggiare del Consiglio di sicurezza, non hanno fermato Bush in tempo. Né si è mossa a tempo l’Europa. L’Italia è davvero sotto un dominio pieno e incontrollato degli Stati uniti, e non solo perché essi mantengono nel nostro territorio a Camp Darby la più potente base che hanno fuori dai propri confini e a Sigonella una delle più forti del Mediterraneo, ma perché un dominio militare presuppone una resa politica e il suo riconoscimento. E questi agli Usa sono stati dati. Stupirsi perché fra una settimana o un mese ci sarà una tratta da pagare – sorvolo dei cieli, uso delle basi – è quasi indecente.

La Waterloo delle sinistre europee sta nell’aver liquidato, dopo la caduta del Muro di Berlino, ogni identità e ogni proprio modello di società. Eppure ne avevano i fattori primi nella storia, e ben lo sapevano anche gli Stati uniti che per un certo tempo ne hanno temuto la concorrenza. Ci sopravvalutavano. Perché se Berlusconi, Fini e Bossi si allineano con giubilo alla Casa bianca, anche il governo di centrosinistra lo avrebbe fatto. Non dimentichiamo che la modifica degli statuti della Nato in un senso dove era iscritto l’esito odierno è avvenuta con l’assenso di D’Alema premier e nel silenzio delle camere, nessun partito escluso, in occasione del cinquantesimo anniversario della Nato. E’ in quell’occasione essa è, anche formalmente, passata da organismo di difesa militare in un ambito limitato a organismo offensivo su terreno illimitato, dovunque si considerino minacciati gli interessi occidentali. La guerra preventiva – della quale giovedì scorso Oscar Luigi Scalfaro, già presidente della repubblica, e Pietro Ingrao, già presidente della Camera, hanno detto (senza che si degnassero di ascoltarli neanche i capigruppo dei partiti di provenienza) che era una espressione delirante – hanno messo allora radici, sviluppate poi nell’assenso delle Nazioni unite alla deliberazione del Congresso americano lanciata dell’ottobre seguente all’attacco alle Due Torri.

L’implosione del campo dell’est doveva restituire l’Europa a se stessa, come pareva possibile dopo la cancellazione del fattore K: quando si sarebbe potuto essere socialisti nella democrazia, liberati dall’ipoteca sovietica. L’ondata elettorale di sinistra a metà degli anni Novanta parve addirittura richiederlo. Ma le sinistre di governo invece di diventare socialdemocratiche sono diventate liberiste. Il modello americano è parso loro obbligatorio, forma autentica della libertà garantita dal mercato. Chiunque si è espresso contro è stato assimilato prima all’antiamericanismo proprio delle antiche destre – antiche alla Schmitt, per intendersi, perché quelle di adesso, ex fascisti in testa, si sono velocemente convertite alla versione fondamentalista dell’America – e poi al terrorismo.

In verità tutta la parabola italiana dagli anni Novanta si può iscrivere in questa potente spinta, alimentata dalla sinistra di governo e dal centro cattolico oltre che dalle destre, verso un capitalismo senza confini, del quale cancellava ogni limite e controllo già contemplato nello schema keynesiano, che riconosceva i diritti della classe non proprietaria. Solo che da noi, dove la sinistra non era mai stata rivoluzionaria ma capace di una egemonia, le cose non sono andate lisce; siamo il solo paese nel quale il movimento antiliberista, no global, innerva una opposizione sociale, non tacitata, contro quella forma di americanizzazione fin caricaturale che è costituita dal berlusconismo, una classe proprietaria che si assegna senza vergogna privilegi come in nessun altro paese europeo.

Quel che ci caratterizza è che non bastano uno Schröder o un Blair a rappresentarla – non è bastato neanche il migliore di loro, Jospin. Ma mentre altrove, come appunto in Francia, il malumore popolare è sfociato in una ondata di destra, in Italia è, sì, scivolato in un primo tempo nel brontolìo e nell’astensionismo, consentendo alla destra di passare alle elezioni del 2001, ma pochissimi mesi dopo ha dato luogo a un protagonismo di protesta civile e a una contestazione crescente delle sinistre moderate. Non c’è altrove un movimento così vasto e costante, ed è un ben povero esercizio quello di chi ne prende continuamente la temperatura, criticando dal centro il suo presunto estremismo, da sinistra il disincagliarsi da ogni egemonia d’alemiana. E’ cominciato da una minoranza sociale ma è andata montando, e chi l’ha detto che non sia maggioritario nei settori decisivi della società civile? Non vuole la guerra, non accetta la cancellazione dei diritti del lavoro, non tollera un governo che legifera la propria impunità e detassazione e mira a ridurre l’autonomia dei magistrati, non ammette che l’opposizione contratti un aumento dei poteri dell’esecutivo, anzi del premier, respinge l’indivisione fra potere politico e potere economico. La sinistra politica è in fibrillazione perché questa spinta non è rappresentata dai partiti.

Grande è dunque il disordine sotto il cielo delle sinistre proprio mentre siamo coinvolti nella tempesta sullo scacchiere mediorientale. E’ un disordine fecondo perché moltiplica i soggetti, la partecipazione, le idee, ma rende difficile un’azione concordata – perché è assieme tardi e presto, ognuno tende a levarsi per conto suo, non discute con gli altri, esaspera le divisioni anche dove sarebbero sanabili, non concorda né le tattiche né i tempi. E in esse il governo sguazza, è riuscito a catturare Cisl e Uil e separarle dalla Cgil con il miraggio di far loro posto negli apparati dello stato, mentre spinge il pedale della Confindustria e minaccia oggi sì oggi no le pensioni. In questi giorni la Consulta ha dichiarato valido il referendum proposto da un gruppo di sindacalisti e da Rifondazione per l’estensione dell’art.18 anche alle aziende di meno di meno di 15 dipendenti, come era giusto e prevedibile. E Berlusconi rigira il coltello nelle differenze della sinistra. Ma era obbligatorio arrivarci come ci si è arrivati? Nessuno può sostenere che il diritto di un lavoratore cessi alla soglia dei 15 addetti, valga per il quindicesimo dipendente ma non per il quattordicesimo. E infatti nessuno, che io sappia, lo sostiene. Ma molti, fra i quali Cofferati, si sono domandati se un referendum del genere abbia consistenti possibilità di riuscita in presenza di una forte diminuzione del numero di addetti per impresa dagli anni `70 – sarebbero 4.800.000 le imprese con in media da due a tre dipendenti – e di un paio di milioni almeno di lavoratori a contratto di collaborazione coordinata continuativa, che l’art. 18 non concerne. Non sarà semplice mobilitare una maggioranza referendaria per il sì. Ma non vincere avrebbe conseguenze assai pesanti. Le divisioni della sinistra non sono in questo caso sulla sostanza, ma sulla tattica. Non si poteva fare in modo di discuterne assieme? Certo non è uno degli errori minori della sinistra al governo non aver messo mano a queste disparità contrattuali e salariali, e tutti i nodi vengono al pettine. Adesso, per quel che può valere il mio avviso, bisogna far tutti di tutto perché il sì passi. Ma non è muovendosi come ci si sta muovendo in questi giorni che si rafforza una sinistra antiliberista, in grado di spostare padronato e governo – dovremmo rifletterci tutti. Il fatricidio non giova a nessuno, non giovano troppe reciproche diffidenze, il farsi l’elenco dei reciproci errori, né mettersi reciprocamente di fronte ai fatti compiuti – in tema di fatti compiuti, il mestolo rischia di restare in mano al padrone. Tutto si può capire, tutti i percorsi sono difficili, ma non se ne può più di fare di ogni mossa della sinistra una vicenda esistenziale di torti e ragioni.

Non c’è più tempo. Penso a quanto noi ci siamo macerati sugli errori del nostro campo – rigidità, teorie dei due tempi, settarismi, sottovalutazione della persona, incapacità di analisi, approssimazioni. Tutto vero. Ma quanto siamo stati più o meno confessatamente tentati, delusi sul socialismo, da un’idea accattivante di un capitalismo clintoniano, proprietario ma con l’anima, imperiale ma soft? Tanto quanto da scorciatoie avanguardistiche. Non ha chiesto anche qualcuno di noi, tapino, «Silvio, o Massimo, facci sognare»? Non abbiamo inseguito una transizione che sarebbe andata verso una riappropriazione della politica da parte dell’individuo e dell’individua, ed è filata dritta in senso opposto? O non abbiamo puntato su antagonismi simbolici come se fossero pari pari conquiste. Quanti hanno guardato, di fronte alla disperante fine del Che e all’auspicato crollo di Breznev, nell’America di Lou Reed? Un poco di analisi materialista non ci avrebbe fatto male. La modestia è di rigore.

Insomma, non si scrive con animo vispo e gagliardo all’età che mi ritrovo. Si ha una lunga memoria, e questa rimanda immagini paurose. La storia delle divisioni a sinistra è lunga quanto la mia vita, e le loro sconfitte ne occupano ben più della metà. Medioriente, Israele, la Palestina non sono la luna, e neppure l’Africa subsahariana cui voltiamo agevolmente le spalle – sono noi, il pentagono siamo noi. Non mi piace l’immagine che lo specchio ci rimanda.