Se a trattare è lo zio Sam

L’idea era ingegnosa, anche se oggi suonerebbe come un’eresia: vendere armi all’Iran, affinché convincesse Hezbollah a liberare gli ostaggi americani in Libano. I soldi guadagnati, poi, sarebbero stati girati ai guerriglieri Contras, che combattevano il governo sandinista in Nicaragua. Da questo schema, ideato nel 1986 dai consiglieri Oliver North e John Poindexter, era nato lo scandalo che aveva quasi distrutto il presidente Reagan e il vice Bush. Una delle tante «relazioni pericolose» intrecciate dagli Stati Uniti, per liberare i propri cittadini catturati nelle zone calde del mondo o per curare l’interesse nazionale.
Nel corso degli Anni Ottanta almeno una trentina di occidentali erano scomparsi nei buchi neri del Libano, la maggioranza americani. Era un periodo terribile, anche secondo gli standard di oggi. La guerra tra Iraq e Iran era in corso dal 1980 e Washington sosteneva Baghdad, perché voleva abbattere il regime di Khomeini, al punto che il 20 dicembre del 1983 Reagan aveva inviato Donald Rumsfeld a stringere la mano di Saddam Hussein. L’ex capo del Pentagono sostiene che era andato a metterlo in guardia contro l’uso delle armi chimiche, ma documenti di intelligence pubblicati dalla George Washington University provano che era partito per confermare l’appoggio americano all’Iraq.
Intanto infuriava anche la guerra civile in Libano, dove il 23 ottobre dello stesso anno un attentato aveva ucciso 241 marines.
Tre anni dopo, North e Poindexter avevano pensato lo schema di quello che sarebbe diventato lo scandalo Iran-Contras. Nel febbraio del 1986 avevano consegnato mille missili Tow a Teheran, e poi altre armi, tramite il trafficante Manucher Ghorbanifar. I soldi ricavati erano finiti ai Contras del Nicaragua, ma la maggior parte degli ostaggi era rimasta nelle mani di Hezbollah.
Nel novembre del 1986 il giornale libanese Ash Shiraa aveva rivelato il traffico, obbligando Reagan a fare un umiliante «mea culpa», nonostante la smentita che l’obiettivo dell’operazione fosse liberare i prigionieri americani.
Nel 1989 era diventato presidente il suo vice, George Bush padre, che durante il discorso inaugurale pronunciò queste parole: «Oggi ci sono americani detenuti contro la loro volontà in terre straniere, di cui non sappiamo nulla. Su questo problema può essere offerta assistenza, e verrà ricordata a lungo. La buona volontà genera buona volontà». Il segretario generale dell’Onu, Perez de Cuellar, intese quelle parole come un’apertura e decise di verificarla.
Nell’agosto del 1989 Brent Scowcroft, consigliere per la sicurezza nazionale di Bush padre e mentore di Condoleezza Rice, andò a trovare Perez in una villa sul mare degli Hamptons, per confermare che «il presidente era pronto ad intraprendere una serie di gesti reciproci che avrebbero allentato le tensioni e liberato gli ostaggi». Gli Usa, però, non potevano negoziare direttamente con l’Iran, e quindi chiedevano aiuto all’Onu. Il segretario generale affidò questo lavoro delicatissimo al suo braccio destro italiano, Giandomenico Picco, che poco dopo si ritrovò nei meandri di Beirut a trattare per la vita dei prigionieri. Parlando a nome di Bush col nuovo leader iraniano Rafsanjani, Picco aveva prospettato lo scongelamento dei fondi di Teheran bloccati negli Usa, la pubblicazione di un rapporto Onu che addossasse su Baghdad la colpa della guerra Iran-Iraq, e magari la liberazione di qualche estremista islamico detenuto dagli israeliani. Tenendo Scowcroft sempre informato della trattativa, il diplomatico italiano aveva ottenuto il rilascio degli ostaggi, senza concedere tutte le contropartite offerte. Bush padre lo ringraziò nella maniera più pubblica possibile, premiandolo col Presidential Special Award for Exceptional Service, che sta ancora appeso nell’ufficio newyorchese di Picco.
Quella, però, non fu l’unica volta che gli americani chiusero un occhio, pur di salvare i propri connazionali o difendere il loro interesse nazionale. Fonti di stampa, ad esempio, sostengono che nel 2003 Washington aveva proposto un accordo ai talebani più moderati: scaricate il mullah Omar, cacciate gli stranieri arruolati per la guerra santa, liberate i prigionieri occidentali, restituite i cadaveri dei soldati morti e terminate gli attacchi contro i contingenti internazionali, e in cambio avrete un ruolo nel nuovo governo afghano.
La trattativa era fallita, ma non era stata l’unica del genere. Il 2 maggio del 2003, infatti, l’ambasciatore americano Zalmay Khalilzad aveva incontrato il collega iraniano Javad Zarif a Ginevra, per discutere un altro scambio: Teheran offriva di consegnare o individuare i membri di al Qaeda presenti nel suo territorio, se Washington avesse ricambiato scaricando gli uomini del Mojahedin-e Khalq, guerriglieri anti iraniani che Saddam aveva ospitato in Iraq. Il dipartimento di Stato considerava il Mek come un’organizzazione terroristica, ma il baratto era stato fermato dai falchi del Pentagono, che accettavano solo il cambio di regime nella Repubblica islamica.
Qualcosa, invece, deve essersi mosso nel marzo del 2006, quando la giornalista americana del Christian Science Monitor Jill Carroll è stata liberata in Iraq, dopo quasi tre mesi di prigionia. In altre occasioni, come quella di Nicholas Berg, Washington non aveva ceduto, e Abu Musab al Zarqawi aveva decapitato con le sue mani il giovane esperto di telecomunicazioni della Pennsylvania. Il 2006, però, era un anno elettorale e l’insoddisfazione dell’opinione pubblica americana per la guerra continuava a crescere. I rapitori avevano chiesto il rilascio delle detenute donne, in cambio della vita di Jill, e secondo la Cnn gli Usa avevano inviato a Baghdad una squadra di negoziatori composta da uomini di Fbi, Cia, dipartimento di Stato e Pentagono. Washington ha sempre negato di aver stretto la mano al diavolo, ma cinque prigioniere furono rilasciate, prima che la Carroll potesse tornare a casa.