L’intervista del segretario Ds alla “Stampa” riapre a sinistra la discussione sulla politica estera, sui rapporti con gli Usa e sulla guerra
Prove tecniche di affidabilità. Si sarebbe potuta intitolare anche così l’intervista a Piero Fassino apparsa sulla Stampa di domenica scorsa. Un’intervista sulla politica internazionale che per molti versi radicalizza le già inquietanti affermazioni fatte in occasione dell’ultimo congresso dei Ds, e che non per caso ha suscitato subito un coro di commenti entusiastici.
Che cosa ha detto, in sostanza, Fassino? Rispondendo al presidente della Camera che gli chiedeva di essere «meno timido» a proposito della strategia americana di «esportazione della democrazia» e gli domandava di riconoscere che i «fermenti democratici in atto in diversi paesi arabi» sono il prodotto della «intolleranza dell’amministrazione Bush verso le dittature», il segretario Ds si è dichiarato pienamente d’accordo con l’on. Casini. «Non ho alcuna difficoltà – ha sostenuto – a riconoscere che i processi di secolarizzazione e democratizzazione che investono soprattutto il mondo islamico sono anche il frutto di una maggior intransigenza dell’Occidente verso chi nega i valori di libertà». Non solo. Evocando la politica estera di Nixon e Kissinger (i colpi di Stato, i complotti, il sostegno alle dittature latino-americane, le torture e gli omicidi politici degli avversari), Fassino ha anche aggiunto che quello di Bush è «un atteggiamento molto diverso»: insomma, quando il presidente americano dichiara di «battersi perché nei paesi arabi ci siano libertà e democrazia» bisogna prenderlo sul serio e ringraziarlo per quanto sta facendo.
Siamo a questo, mentre entriamo nel terzo anno della guerra irachena. Si capisce che, incitandolo ad «andare avanti» senza remore, il Corriere della Sera abbia salutato con soddisfazione la «bella intervista» del leader Ds e il «passo avanti molto significativo» che egli ha compiuto. Si capisce anche che tanti esponenti moderati dell’Unione – da Letta a Macaluso, da Ranieri a Caldarola – si siano precipitati a manifestare pieno consenso per queste «coraggiose» novità. Che poi – a guardar bene – novità in senso stretto non sono, visto che già lo scorso febbraio l’on. D’Alema ebbe modo di dirsi “affascinato” dall’«ideologia neoconservatrice» perché opposta a «una concezione ottocentesca della legalità internazionale e della sovranità nazionale che tollera le dittature e la violazione sistematica dei diritti umani». La buona accoglienza riservata a queste posizioni da parte di ambienti ed esponenti politici moderati non sorprende affatto, anzi aiuta a cogliere la portata di questo ennesimo scivolamento a destra della leadership diessina e a decifrarne con precisione il significato.
D’Alema e Fassino rivalutano Bush e la strategia neo-con di «esportazione della democrazia». Quale democrazia? Gli accenni alle elezioni irachene contenuti nell’intervista alla Stampa lascerebbero intendere: la democrazia fondata sui diritti politici e sulle libertà civili. Bene. Vorremmo sapere allora perchè il presidente e il segretario Ds non parlano anche di Abu Ghraib e Guantanamo, dove le torture sono tuttora pratiche normali e non di rado conducono alla morte dei «sospetti terroristi»!
Nessuno sa quante siano le carceri controllate dal Pentagono in giro per il mondo. Nessuno sa quante migliaia di persone, mentre scriviamo, stiano morendo sotto le mani degli aguzzini incaricati di fare parlare «ad ogni costo» i «nemici combattenti». Che cosa ha da dire l’on. Fassino su tutto questo? O sui rapimenti organizzati dalla Cia in tutto il mondo (Italia compresa) e sugli aerei-fantasma che prelevano i presunti terroristi dei quali si perde poi ogni traccia?
Democrazia: quale democrazia? Quella del Patriot Act e del Military Order, leggi promulgate da Bush all’indomani dell’11 settembre, che consentono al presidente e ai suoi collaboratori di sbattere in galera chiunque senza nemmeno formulare un capo di accusa? Negli Stati Uniti ci sono almeno tremila persone di cui non si sa più nulla. Non noi comunisti, ma gli stessi giuristi democratici americani hanno denunciato l’esistenza di migliaia di desaparecidos. Quale democrazia? Quella di Pelican Bay e delle centinaia di carceri private in territorio statunitense, nelle quali non c’è solo la tortura, lo stupro sistematico, la promiscuità con i bambini, ma anche il lavoro forzato dei detenuti? Tutto questo Fassino lo omette. Come omette l’esautorazione dell’Onu, le menzogne sulle armi di distruzione di massa, le centinaia di miliardi di dollari che gli Usa non restituiscono ai loro creditori e spendono ogni anno in armamenti. Come tace altresì sui 150-200mila morti causati da questa guerra criminale: gente innocente – donne, bambini, anziani – fatta fuori dalle bombe democratiche degli americani e dei loro alleati. Evidentemente gli paiono un costo sopportabile della «democratizzazione» del mondo.
Tornano gli anni Novanta: torna l’ideologia dell’interventismo democratico e delle «guerre umanitarie». Torna (camuffata come critica del “relativismo culturale”) la pretesa razzista di ergersi a giudici dei Paesi più deboli, per la cui «democratizzazione» anche le guerre appaiono legittime. Fassino non lo dice ancora espressamente. Si limita a dire che, «da sola», la guerra «non è una soluzione». Ma nel suo partito c’è già chi lo incalza, tenendo a dire che, purché non «unilaterale», l’«uso della forza non si deve escludere a priori».
«State tranquilli: quando la Nato chiamerà, l’Italia farà la sua parte»: questo dice, in vista delle prossime elezioni politiche, il maggior partito della sinistra italiana e dell’Unione. Lo dice a chiare lettere, senza mascheramenti. Non per caso, del resto, si guarda bene dal chiedere il ritiro immediato delle truppe italiane dall’Iraq e dal partecipare alle manifestazioni contro la guerra in occasione dell’anniversario dei primi bombardamenti di Baghdad. Allora non si può più tergiversare. Bisogna dire con chiarezza che la politica di Bush porta soltanto guerra e devastazione. Che la democrazia non c’entra nulla, poiché questa ennesima guerra nasce dalla crisi economica degli Stati Uniti, dalla volontà di mettere le mani sul petrolio iracheno e dalla decisione di ostacolare con ogni mezzo la crescita cinese ed europea. E bisogna anche far sì che Rifondazione comunista apra un serrato confronto politico con le forze dell’Unione, affinché posizioni di questo genere vengano tempestivamente sconfitte. Quando abbiamo sollevato e solleviamo, a partire dalla politica estera, la necessità di un chiarimento preliminare con le altre forze de l’Unione non lo facciamo per operare una forzatura, ma perchè avvertiamo la pericolosità di costruire la nostra prospettiva e quella del Paese sulla sabbia. Nessuno più di noi ha insistito in questi anni sulla necessità di unire le forze democratiche contro il governo delle destre, per cacciare quanto prima Berlusconi. Ma oggi sentiamo il dovere di dire con altrettanta forza che le posizioni assunte dalle componenti moderate dell’Unione su questioni assolutamente cruciali fanno temere il peggio. Se non vogliamo rischiare di ritrovarci in una situazione simile al 1998, dobbiamo pretendere che tutti si impegnino dinanzi al Paese, in primo luogo, a una politica di netta contrarietà a qualsiasi guerra.