Scriviamo le nuove regole per dire basta alla precarietà

Riscrivere il lavoro per invertire il segno: fermare la precarietà e ricostruire i diritti. E’ l’obiettivo della proposta di legge elaborata da Nanni Alleva e dai giuslavoristi del Centro diritti Alò, che verrà presentata dopodomani a Roma nel corso del convegno «Basta precarietà», a cui sono stati invitati tutti i partiti del centrosinistra e il sindacato. Alleva è anche estensore delle proposte di legge Cgil firmate nel 2002 da cinque milioni di persone, e riconfermate dal recente Congresso di Rimini. Sono molti i legami tra quelle idee del 2002 e quest’ultima elaborazione: oggi Alleva ha voluto però riunire le norme in un’unica, organica proposta, «per affrontare – spiega – con un solo disegno la precarietà “multiforme” del lavoro italiano». Non basta fare i conti con la sola legge 30, ma bisogna affrontare anche il decreto 368 del 2001 sui contratti a termine e il «Pacchetto Treu» del 1997. Cinque i nodi da riformare: 1) il rapporto tra subordinazione e parasubordinazione (le collaborazioni); 2) il contratto a termine; 3) la separazione del lavoro dall’impresa (somministrazione, appalti, esternalizzazioni); 4) il lavoro nero; 5) i diritti di risarcimento del danno. Una precarietà «multiforme», perché compare sotto diversi tipi contrattuali, e interessa in modi differenti l’intero mondo del lavoro: i giovani del settore pubblico e del privato, bersagliati dai contratti a progetto e cococò; gli addetti del terziario, ricattati dai contratti a termine; quelli dell’industria, ridotti all’«usa&getta» con la somministrazione e le esternalizzazioni; i migranti (e non solo loro) costretti al lavoro nero. Fino agli stessi «garantiti», i dipendenti a tempo indeterminato: mosche bianche tra i nuovi assunti, poco tutelati dal licenziamento nelle piccole imprese, messi fuori «a pacchetti» con le cessioni d’impresa.
Subordinati e parasubordinati
Uno dei nodi più «caldi» della precarietà è senza dubbio la distinzione tra subordinati e parasubordinati (i collaboratori coordinati e continuativi e a progetto). Nanni Alleva parla di una «fuga tutta italiana» dal diritto del lavoro: negli ultimi anni, infatti, i collaboratori sono stati sempre più sospinti (contrattualmente) nell’area del lavoro autonomo, in modo da privarli di un’adeguata retribuzione e della tutela dal licenziamento senza giusta causa, mentre dall’altro lato sono stati adibiti a mansioni in tutto simili a quelle dei «subordinati» classici, inquadrati nel lavoro dipendente. Per superare questa anomalia, bisogna andare alla radice di un equivoco culturale, quello che identifica la subordinazione (e i diritti ad essa connessi) con il grado di controllo, o «eterodirezione», cui è sottoposto il lavoratore. Questo equivoco poteva essere comprensibile – spiega il giuslavorista – quando il paradigma del lavoro era essenzialmente quello della catena di montaggio industriale: oggi che il lavoro è cambiato e in molti casi è organizzato in modo «immateriale», è davvero difficile stabilire l’attribuzione delle tutele e garanzie in base alla eterodirezione. La vera dipendenza dal datore di lavoro non sta tanto nella eterodirezione, ma nella «doppia alienità» del lavoratore rispetto all’organizzazione del lavoro e ai suoi risultati: è perciò da inquadrare con tutte le garanzie del lavoro dipendente chiunque presti il proprio lavoro all’organizzazione di un altro, ovvero l’impresa, indipendentemente dal grado di controllo cui è sottoposto. Se i mezzi di produzione e il risultato della prestazione (l’utile economico) è tutto del datore di lavoro, mentre il lavoratore cede la propria opera in cambio della sola retribuzione necessaria al sostentamento proprio e della propria famiglia, allora questo lavoratore è in uno stato di «dipendenza socio-economica». La proposta Alleva riscrive dunque l’articolo 2094 del codice civile, mettendo al centro del rapporto di lavoro questa «doppia alienità». Diventa così automatica l’estensione delle tutele e dei diritti degli attuali dipendenti a chi oggi è in collaborazione. Il tema della «eterodirezione» non sparisce, ma scende di rango, diventando una semplice modalità di esecuzione: il dipendente potrà essere «eterodiretto» o «autogestito» a seconda del grado di controllo esercitato dalla gerarchia di impresa, ma godrà in tutti i casi di un corpus unico di garanzie. Questa unificazione dei rapporti vale anche per i contratti cococò attivati dalle amministrazioni pubbliche. Infine si annullano gli attuali abusi sui cosiddetti «associati in partecipazione», anch’essi ricondotti al lavoro dipendente.
Il rapporto a termine
La seconda via di precarizzazione dei rapporti di lavoro è legata all’«apposizione del termine»: ovvero, hai un contratto da dipendente, con tutte le tutele e le garanzie (compresa la non licenziabilità senza giusta causa), ma sei «a scadenza». La proposta Alleva prevede: 1) che nel contratto sia giustificata l’effettiva temporaneità dell’esigenza produttiva, legata espressamente all’apposizione del termine; 2) l’attribuzione al datore di lavoro dell’onere della prova rispetto alla ricorrenza di queste causali. I sindacati hanno il diritto a essere informati e a trattare, in sede di contratto collettivo, la percentuale massima dei lavoratori a termine sul totale dei dipendenti. Le parti possono contrattare specifiche ipotesi di apponibilità del termine, purché si tratti sempre di esigenze oggettive e di attività temporanee. Condizione inedita: gli accordi devono essere stipulati unitariamente dai sindacati maggiormente rappresentativi. C’è poi il tema della ripetibilità, liberalizzata dal decreto 368 del 2001: ha dato la possibilità di rinnovare i contratti all’infinito, in contrasto persino con la disciplina Ue. Si ristabilisce il diritto di precedenza dei lavoratori a termine per le nuove assunzioni previste dall’impresa; inoltre, dovrà essere assunto a tempo indeterminato qualsiasi lavoratore contrattualizzato presso la stessa impresa per più di 18 mesi nell’arco di 5 anni. La normativa si applica anche al pubblico impiego, i cui lavoratori a termine dovranno comunque passare per un concorso.
Il lavoro separato dall’impresa
Attraverso tre mezzi – la somministrazione di manodopera, l’appalto di opere e servizi, il trasferimento di ramo di azienda – si è raggiunto l’obiettivo di separare il prestatore d’opera (il lavoratore) dal suo diretto utilizzatore (l’impresa), ponendo il lavoratore in uno stato di soggezione e abbassando spesso le sue garanzie. La proposta Alleva abolisce lo staff leasing (somministrazione a tempo indeterminato) e riporta il lavoro interinale alla sua ratio originaria, evitando l’abuso oggi più diffuso: l’impresa seleziona il lavoratore e poi lo manda all’agenzia interinale per farselo ri-inviare in missione e utilizzarlo all’infinito, liberandosene quando non serve più. Il rapporto interinale potrà essere attivato secondo le condizioni limitate del nuovo contratto a termine. Quanto agli appalti, si vieta quello di «mera manodopera», e si impone che lavoratori inseriti nel medesimo ciclo produttivo abbiano gli stessi trattamenti e le stesse tutele (piena parità tra i dipendenti del committente e dell’appaltatore, e responsabilità solidale di questi nei confronti del lavoratore). Cessione di ramo d’azienda: per scorporare e cedere un ramo dovrà tornare la «preesistente autonomia» abolita dalla legge 30; i lavoratori ceduti dovranno mantenere tutti i diritti e trattamenti acquisiti presso il vecchio datore di lavoro, se migliori rispetto a quelli del nuovo. Il cedente, in caso di cessazione dell’appalto, sarà obbligato a riassumere i lavoratori ceduti. Una nuova norma garantisce infine i lavoratori dei «gruppi di imprese» (diverse società sotto la stessa proprietà): si eviteranno i meccanismi elusivi favoriti fino a oggi dalla frammentazione societaria, considerando tutto il gruppo di imprese responsabile verso il lavoratore.
Il sommerso e la risarcibilità
Le ultime due parti della proposta Alleva affrontano i temi del lavoro nero e della risarcibilità dei danni subiti dal lavoratore. Il lavoro nero viene affrontato in un modo innovativo: viene classificato come «comportamento antisindacale» e dunque ricondotto all’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori. Questo permette ai sindacati di costituirsi autonomamente come parte civile, senza attendere che il lavoratore abbia il coraggio di denunciare (cosa difficile perché è intimorito). Risarcibilità: viene estesa l’area del danno risarcibile, non impedendo la dimostrazione di danni patrimoniali ed extrapatrimoniali subiti dal lavoratore; si farà così uscire il diritto del lavoro da quella sorta di «minorità» in cui finora è stato mantenuto, collegandolo strutturalmente con il diritto privato. Vengono abrogati, infine, il lavoro ripartito (job sharing) e quello a chiamata (job on call), il contratto di inserimento, la certificazione dei rapporti.