Sconfiggere una dimensione della politica che è pura pratica delle classi dirigenti

Dalla discussione in corso tra noi proporrei di abbandonare alcuni toni e certi temi. Che, per esempio, questo dibattito anticipi e intrecci quello che terremo tra pochi mesi andando a congresso mi pare non solo ovvio ma persino giusto; tanto che non intendo perché certi compagni che dissentono dall’intervista di Bertinotti sdegnosamente lo neghino (non tutti, in verità; Ferrando, se ho ben inteso, propone legittimamente un confronto a tutte le aree critiche), e perché altri continuino a sottolinearlo dando l’errata idea che vogliano scartare il merito delle obiezioni che vengono sollevate proprio quando invece gli si dedica tanto spazio e giustamente, con Liberazione, si promuove questa tribuna.

Ma pure l’enfasi con cui quotidianamente qualcuno dichiara la banalità che sulla guerra non sarebbe ammessa alcuna trattativa è, a voler essere generosi, almeno fastidiosa. Il paradigma pacifista non è prerogativa di alcuni di noi e neppure solo nostra, per fortuna. Vandana Shiva, per dire solo un nome, sul saldo legame tra guerra preventiva e forme odierne del dominio ha recentemente scritto un saggio non a caso intitolato “L’unico imperativo”. Ecco, quell’allusione neppure tanto remota alla categoria del tradimento (è già stato ricordato: ieri alla pretesa liquidazione del partito o all’oblio della questione operaia o, aggiungo io, alla presunta abiura ai valori della resistenza e oggi addirittura alla guerra globale), non rende tanto feconda la nostra discussione e, questa sì, certamente la ingessa. Insomma non ci sono bandiere lasciate cadere nel fango e non c’è bisogno di alcuno che si precipiti a raccoglierle!

Forse meglio sarebbe concentrarsi sul vero tema sotteso alla proposta della costituente programmatica; di cui le cosiddette primarie, se non sbaglio, non vogliono che essere un sinonimo e non certo quell’improvvisa infatuazione americana di cui qualcuno crede. Mi pare evidente che in questi mesi in settori non certo marginali del centrosinistra si sia fatta strada l’ipotesi di raccogliere il generoso e diffuso sentimento antiberlusconiano e di utilizzare le costrizioni presenti nel sistema maggioritario per provare a vincere le prossime elezioni politiche senza doversi troppo misurare con il conflitto sociale di questi ultimi anni, le domande e le esigenze di trasformazione che questo ha irrorato e, in ultima istanza, neppure con noi. L’accelerazione tentata col partito riformista, le attenzioni rivolte al progetto neocentrista inteso quale possibile soluzione ad un maggioritario per loro forse ancora imperfetto, le improvvide dichiarazioni alle primarie (quelle sì che davvero ci sono state) di Boston, le considerazioni di Amato sull’antiamericanismo, un editoriale di pochi giorni fa della Repubblica – come al solito alfiere di queste ipotesi – dove il referendum per defenestrare Chavez diventa un pretesto per proporre di liquidare qui e ora la sinistra alternativa sono, per citare solo alcuni esempi, tutte spie di questa propensione.

E l’elenco, come tutti sappiamo, potrebbe lungamente proseguire. Insomma, per le aree moderate del centrosinistra la rendita elettorale sarebbe tale e le condizioni del sistema con cui si vota talmente favorevoli che alla fine della favola chi vuol fare cadere questo governo dovrebbe andare a picchiare per forza lì pure in cambio di nulla. Non è un’ipotesi granché peregrina; è la premessa di quel pendolo che abbiamo dichiarato di voler interrompere e rispetto cui – lo dico sommessamente e attento a non far torto all’intelligenza dei compagni che le propongono – quelle soluzioni tecnico elettorali cui Cannavò suggerisce di disporsi sono assolutamente compatibili.

Pensiamoci. Credo che nessuno ritenga il progetto che ci siamo dati un percorso lastricato di petali di rosa, ma la “soluzione tecnico-elettorale” è la dichiarazione preventiva che per forza il governo di domani se non sarà zuppa sarà pan bagnato. E, mi sia concesso, non vedo proprio perché ci si debba subito rassegnare a questa evenienza.

Qual è la sfida, allora? Io penso quella di contrastare e, possibilmente, sconfiggere una dimensione della politica che è pura pratica delle classi dirigenti; quella di tentare di agire sul collo stretto della contraddizione tra un’alternativa socialmente matura e una forma della politica che la espelle. E’ qui che nasce l’esigenza, mi pare, di allargare la platea. E che le proposte di costituente programmatica e costituente alternativa non possono essere considerate rette parallele, ma due espressioni di una proposta unitaria. Diversamente resta la staticità oppure il surrogato di esercizi di calligrafia (i famosi paletti; gli accordi locali che poi è mica vero che sono sempre belli) svolti solo per giustificare il proprio voto negli organismi dirigenti.

E’ difficile? Senz’altro si. E varrebbe pure considerare che le resistenze purtroppo non provengono solo dalle opposizioni moderate (non apro questo capitolo, ma ricordo solo l’intervento di Negri su Posse). Qui, mi pare, dovremmo concentrarci. Se, come dice Boghetta, “le primarie sul programma non si faranno mai” e se, aggiungo io, quello che certo non ci occorre è un’inconcludente babele o un evento meramente mediatico, come navighiamo allora tra la loro astratta e inconfutabile necessità e le concrete difficoltà di realizzarle?

Bruno Pastorino