Più che un sipario un sudario. La parola fine su Rifondazione comunista così com’è stata fino a oggi viene pronunciata nella sala intitolata a Lucio Libertini, una catacomba gelida e stretta sotto la sede di via del Policlinico. Perché la sostituzione di Piero Sansonetti alla guida di Liberazione viene interpretata dalla minoranza «vendoliana» sconfitta di misura al congresso di luglio (47,3 per cento) come «uno strappo incolmabile», sintetizza dal palco per tutti gli «scissionisti» una commmossa Graziella Mascia.
Via via si alternano uno dopo l’altro gli addii di una larga parte del gruppo dirigente più vicino a Bertinotti, mescolati ad affondi personali e politici durissimi e livorosi con accuse di stalinismo e nostalgia del muro di Berlino. Interventi nervosi più che appassionati. Un palcoscenico per vecchi e nuovi rancori. La scissione a lungo vagheggiata, evidentemente, è ormai metabolizzata almeno ai vertici. Da Nichi Vendola in serata arriva un gelido addio a distanza, che benedice le dimissioni dagli organismi dirigenti del partito di buona parte della sua mozione (anche se con eccezioni significative).
Intervenendo in apertura, il segretario Paolo Ferrero spiega che i motivi a favore della sostituzione di Sansonetti sono essenzialmente due. «L’insuccesso editoriale, per usare un eufemismo», e una divergenza di linea politica secondo cui «Piero ha diretto il giornale sulla base di un progetto opposto a quello della rifondazione comunista che invece ha vinto democraticamente il congresso». La sua sostituzione, promette Ferrero, non scalfirà l’autonomia del giornale e di chi ci lavora, «ma è chiaro a tutti che se si prosegue così il Prc rischia di scomparire per mancanza di fondi». Le cifre sono ormai note. Liberazione vendeva circa 10mila copie nel 2004 e arriva a stento a 6mila. Il suo deficit pesa sul bilancio del partito per circa un terzo: 3-3,5 milioni di euro su 10. Cifre drammatiche ma non nuove.
E’ evidente che la questione è politica. «Uguaglianza e libertà sono entrambi elementi fondanti della cultura politica del Prc e ci resteranno, nel nostro statuto c’è l’obiettivo del superamento del capitalismo e del patriarcato», assicura Ferrero. E a chi lo accusa di avere nostalgia della Pravda ricorda di volere un giornale e un partito simile a quello di Genova, «una casa per tutti, senza distinzioni tra chi è dentro e chi è fuori». Fino alla fine, dopo oltre 7 ore, ci si avvita anche sulle procedure. Il sindacalista di Brescia infatti non è un giornalista e per legge ha bisogno di un vicedirettore responsabile al suo fianco che però ancora non è stato presentato. La sua nomina passa in serata con solo 26 voti su 60 membri della direzione. Decisivi per il numero legale 3 «vendoliani» contrari alla scissione come Augusto Rocchi, Rosa Rinaldi e Luigi Cogodi. Astenuti però anche due «ferreriani» doc come Maurizio Acerbo (primo firmatario della mozione congressuale) e Giovanni Russo Spena. «Quando se ne va via una parte così importante del partito è una sconfitta per tutti – dice Russo Spena – però la drammatizzazione sul giornale è diventata lo strumento di chi vuole distruggere Rifondazione». Quasi tutti i dirigenti della «mozione 2» affondano i colpi soprattutto su chi gli era più vicino come Ferrero. «Quando eri in segreteria non ti sei mai preoccupato del deficit di Liberazione perché non ti conveniva», attacca Gennaro Migliore. E dopo di lui Maurizio Zipponi suona quasi paradossale: «Voi state sciogliendo il Prc – dice alla nuova segreteria – dimettevi finché siete in tempo». E sulla figura di Greco si lascia andare a vecchie ruggini: «Alla camera del lavoro di Brescia ha sempre perso, perfino sul suo successore. Ci ha portati a 8 anni di rottura con la Fiom. Noi siamo contenti ma ora a Roma sono cazzi vostri». Critiche su cui la platea rumoreggia più o meno all’unanimità. A difesa del neo-direttore interviene Alfio Nicotra: «Non vogliamo né purghe né gulag, chiediamo solo che il giornale valorizzi le posizioni della maggioranza del partito senza ridicolizzarle».
Il dibattito, già non eccelso, si avvita: tutti contro tutti a colpi di stalinismo, con esiti perfino paradossali, come Alfonso Gianni e Ramon Mantovani, oggi su mozioni opposte, ma che entrambi nel ’71 gridavano «viva Stalin» tra i katanga milanesi. Gianni è durissimo, dice di non avere «un sassolino nella scarpa ma un muro»: «Sul muro di Berlino puoi stare di qua o di là ma non ci puoi stare a cavalcioni», accusa l’ex sottosegretario, che poi però segna un punto da cui non si può prescindere: «Liberazione è stata per il partito una finestra sul mondo, attraverso la quale noi guardavamo fuori e gli altri guardavano noi, anche nelle nostre porcherie interne». Non è un giornale di partito? «Bene, benissimo – tuona Gianni – è proprio questo che l’ha fatta vivere negli anni, modesta ma vitale, Europa e il Secolo chi li legge, a chi servono?». Il suo intervento scatena un putiferio di insulti e improperi. «Riconosco lo stalinismo anche quando si ammanta di anti-stalinismo», risponde Mantovani, critico da sempre con Sansonetti, di cui ricorda la fucilazione pubblica di Francesco Caruso quando (a torto) definì «un assassino» Marco Biagi a causa della legge 30: «La democrazia – dice – prevede la nomina del direttore ma anche la sua sostituzione». E poi l’affondo alla sua vecchia corrente: «Se al congresso Vendola avesse avuto pochi voti in più grazie alle altre mozioni che avreste detto sul rispetto degli iscritti?». Ferrero a margine rovescia le accuse di stalinismo indirettamente anche su Bertinotti, che aveva parlato di Rifondazione «irriconoscibile»: «E’ staliniano l’uso della storia da parte dei dirigenti per legittimarsi o meno a vicenda». Il futuro resta incerto.
Non tutti i «vendoliani» usciranno dal partito. In direzione ieri sono rimasti in tre (Rocchi, Cogodi e Rinaldi). Cioè intere regioni come Sardegna (dove si vota tra poco) e Sicilia più quadri sparsi nel resto d’Italia che potrebbero superare un terzo dei sostenitori della vecchia «mozione 2». Oggi diffonderanno un documento pubblico che chiede di restare a dare battaglia dentro pur essendo d’accordo alla rifondazione della sinistra. L’appuntamento per tutta l’area comunque è a Chianciano il prossimo 24 gennaio. Non un congresso fondativo, per ora, ma un seminario che dovrà decidere il da farsi. Le ipotesi in campo sono essenzialmente due. La prima punta tutto sullo sfascio del Pd e prevede un cartello elettorale con Sd e Verdi che rimandi il nuovo partito a dopo le europee. L’altra, più ambiziosa, mira a un partito subito, con primarie dal basso su dirigenti e candidature. E’ scissione. Ma ancora non ha le idee chiare.