“Una nazione che non chiede che l’ordine è già schiava nel profondo del suo cuore”. Così scriveva Aléxis de Tocqueville, uno che di liberalismo se ne intendeva. Invito un sedicente liberale “di antico corso”, il professore Panebianco, a meditare. E a rileggere il suo stesso editoriale sul Corriere della Sera del 13 agosto: un articolo a dir poco agghiacciante, a cui, per la verità, ha replicato l’indomani, sullo stesso giornale, Claudio Magris. Ma molto v’è da aggiungere, alle parole pur sensibili e intelligenti di Magris, specie se si affronta la questione che pone l’opinionista del quotidiano milanese, noto sostenitore “critico” del Centrodestra, notissimo ammiratore della “democrazia” a stelle e strisce, da un altro punto di vista.
Siamo, naturalmente, nel contesto della lotta infinita al “terrorismo”, i cui tentacoli vanno, stando alla costruzione di senso comune in corso, dagli attentati falliti di Londra agli sbarchi di Lampedusa, dai missili Katiuscia degli Hezbollah all’assassinio della giovane pakistana nel Bresciano. Le sapienti interviste dei telegiornali all’“uomo della strada”, le dichiarazioni irresponsabili di politici di destra, il delirio davvero quotidiano di testate quali La Padania o Libero o Il Foglio, tutto contribuisce a creare un’atmosfera di sospetto e di paura, mescolando tutto, tra malafede e ignoranza: in ogni volto (troppo?) bruno si ravvisa uno straniero, in ogni straniero un sospetto islamico, in ogni islamico un nemico. E il nemico viene schiacciato su rappresentazioni che lo deumanizzano, e dunque non lo rendono degno di stare a fianco a noi, o addirittura legittimano su di lui ogni forma di sopruso, di privazione di diritti, di violenza, fino alla tortura e alla morte. A ciò si aggiunge il corollario del “nemico interno”: egli sembra come noi, parla la nostra lingua, compie gesti simili ai nostri, veste come noi vestiamo (non indossa, insomma, le “palandrane del cazzo”, amabilmente dipinte dal fiorito eloquio dell’onorevole Borghezio, un campione di volgarità, oltre che di padanismo alla griglia) … Ma, egli, il nemico interno, non è come noi: perciò è il più pericoloso dei nemici, perché agisce da dietro, colpisce alle spalle, ci pugnala mentre noi teniamo i nostri moschetti nella trincea, puntati verso le palandrane, appunto. La Prima Guerra mondiale ha creato la figura del nemico interno e ne ha fatto uno stereotipo straordinario, che ha avuto enorme fortuna lungo il Novecento.
Credevamo che dopo la caduta del fascismo, la fine dello stalinismo e del maccartismo, cessata la guerra fredda, questa figura fosse tramontata.
E invece, le “nuove guerre” del XXI secolo, dal Golfo 1991 fino al Libano, mentre Afhganistan e Iraq sono un orribile, incessante mattatoio, hanno riportato in auge anche il nemico interno. Professori e giornalisti di centrodestra, da Nicola Matteucci, ieri, a Giuliano Ferrara, oggi, non esitano ad additare alla pubblica ignominia (qui fa scuola D’Annunzio, il quale “consegnava” i neutralisti nel maggio del ’15 al pugno, al ceffone, al pugnale degli interventisti) quegli italiani (quegli occidentali) che non condividono l’idea dello scontro di civiltà, che non vogliono arrendersi all’Armageddon tra bene (noi) e male (loro), che non ne vogliono sapere di guerre “giuste”, “etiche”, “altruiste”, “umanitarie”….
Bene. Ora sappiamo che anche il mite Panebianco (quanta delicatezza già in questo cognome!) ritiene che il nemico interno esista, e sia da combattere, in quanto “alleato di fatto del terrorismo jahadista”. Ma il pacato studioso dei fenomeni politici, uno dei signori delle cattedre della sua disciplina (la scienza politica), si spinge molto oltre. In relazione al fatto che gli “attentati” di Londra (si può parlare di “attentati” non compiuti?), ammesso che le cose che ci raccontano i servizi britannici siano tutte genuine, siano stati resi impossibili grazie a “pressioni” sugli arrestati – leggi, tortura – Panebianco se la prende con coloro che hanno storto il naso. Specie fra noi italiani, che sembriamo restii ad accettare ciò che altrove è “normale”, ossia “il compromesso… fra stato di diritto e sicurezza nazionale”. La guerra, la sospensione ad oltranza delle leggi, la violazione di norme, la tortura, sono pratiche non solo normali da un punto di vista del realismo politico (non sono belle, ma ci sono sempre state), ma sono ovvie e legittime dal punto di vista dello stesso liberalismo. In particolare dei liberali “di antica data”, ossia Panebianco, loro lider maximo. Il quale sostiene la necessità di una “zona grigia”, tra legalità e illegalità, nella quale le forze di sicurezza si possano muovere e agire, liberamente. Lo stato di diritto che sarà mai? “Un feticcio”, risponde placido il Nostro, che se la prende con la “malintesa, fondamentalista, visione della legalità”. L’alternativa – questa la ciliegia sulla torta – è data dalle “soluzioni autoritarie”. Insomma, per un vero liberale la legge è apparenza, la sostanza è la forza; i princìpi, un orpello di cui si può fare a meno; tortura, illegalità e guerra sono mezzi leciti e necessari; e se non vi piace questa democrazia in grigio, lo spauracchio che viene agitato è la (non) democrazia in nero. Sbaglio a leggere la morale della favola così? “Se non volete che mettiamo mano ai manganelli, accontentatevi di quel che vi concediamo. In fondo, lo facciamo per il vostro bene”. Professore Panebianco, anzi Mr. Whitebread, sciolga il dubbio, la prego.