Scheletri e armadi. Il passato che non passa

L’Europa politica è nata dal trauma della guerra. Ma nell’urgenza della riconciliazione ha spesso rimosso il passato, senza sanarne le ferite. Complice la guerra fredda, che sconsigliava di angustiare i nuovi compagni d’armi tedeschi, i fascicoli sulle stragi nazi-fasciste finirono nell’armadio della vergogna.
Scheletri e fascicoli hanno la cattiva abitudine di uscire dagli armadi. Così la Germania, mentre si accinge a guidare per sei mesi l’Europa verso costruttivi orizzonti, si ritrova tra i piedi pezzi di passato che non passa.
La prima grana è scoppiata sul fronte polacco. Ventidue tedeschi espulsi dopo la guerra dai territori passati alla Polonia si sono rivolti alla corte di giustizia europea, chiedendo un risarcimento. I polacchi replicano che, se si vogliono contare i danni, quelli per la distruzione della sola Varsavia ammontano a 45 miliardi di euro. Angela Merkel prende le distanze dai ricorrenti, ma non sa come fermarli.
Anche tra Italia e Germania c’è un contenzioso. O meglio dovrebbe esserci, perché i nostri governi, con equanime indifferenza bipartisan tra quanti se ne sono avvicendati negli ultimi quindici anni, fingono di non accorgersene. Si tratta della protratta impunità per responsabili di crimini nazisti e del mancato indennizzo ai deportati e agli internati italiani per il lavoro coatto.
La Germania ha modificato la sua costituzione per rendere possibile l’estradizione di cittadini tedeschi, in precedenza sempre esclusa, di fronte al tribunale penale internazionale e nel quadro del mandato di cattura europeo. Quest’ultimo accordo prevede anche l’esecuzione – in Germania – di sentenze pronunciate altrove.
Ma le innovazioni sono rimaste sulla carta. I banchi degli imputati al processo in corso a La Spezia per Marzabotto restano vuoti. Lo stesso tribunale militare di La Spezia ha chiesto da mesi l’esecuzione di una sentenza per l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, senza avere risposta. Perché il ministro della giustizia Mastella non la sollecita?
Capita che la Procura di Monaco disponga l’archiviazione dell’inchiesta contro un sottotenente che comandò un plotone d’esecuzione a Cefalonia. La procura non ravvede in quell’omicidio l’aggravante dei «vili motivi», che bloccherebbe la prescrizione. Sostiene infatti, come sostenne nel ’43 la Wehrmacht hitleriana, che gli italiani non erano normali prigionieri di guerra, come tali da tutelare, ma «traditori». Accade anche che Marcella De Negri, figlia di un capitano fucilato su quell’isola, si ritrovi da sola a opporsi all’archiviazione con un ricorso.
Manca una protesta forte del governo italiano (il nostro ambasciatore si è limitato a chiedere chiarimenti, in forma riservata), un gesto visibile, magari anche solo l’assunzione delle spese legali.
Ci sarebbe infine da battere il pugno sul tavolo per l’indennizzo del lavoro coatto, previsto da una legge tedesca, ma negato agli italiani. Quella legge esclude in generale dagli indennizzi i prigionieri di guerra, tenuti, entro limiti ben precisi che i tedeschi rispettarono solo per americani e britannici, a prestazioni di lavoro.
Ma i nostri soldati non godettero delle tutele internazionali per i prigionieri di guerra: come «internati militari» vennero sottoposti a un regime atroce per vendicare il «tradimento italiano». E dall’estate del ’44 assunsero d’autorità lo status di «lavoratori civili» a disposizione dell’industria. I prigionieri polacchi «civilizzati» già nel ’40, sono stati indennizzati. I nostri no. Il diverso trattamento si spiega solo con la circostanza che i governi polacchi si sono battuti per i loro soldati, i governi italiani no.
Niente indennizzo nemmeno per i deportati civili perché, venendo da un paese «occidentale», sarebbe stati trattati meglio dei compagni di sventura dell’est. Un falso palese, perché dopo l’8 settembre gli italiani vennero pesantemente discriminati.
È intollerabile che fondamentali questioni di giustizia si trascinino irrisolte tra partner europei. Dal governo Prodi ci aspettiamo che se ne occupi, prima che muoia l’ultimo dei sopravvissuti.