SCHEDE SUGLI STATI EUROPEI EX SOVIETICI (ESCLUSA LA RUSSIA)

Con un territorio di 45.000 Kmq e una popolazione di solo 1,3 milioni di abitanti (che per oltre il 60% parlano una lingua simile al finlandese), l’Estonia è la più piccola delle repubbliche baltiche ex sovietiche. Essa ha fatto parte dell’impero zarista fino al 1917, anno in cui venne coinvolta nel processo rivoluzionario che portò alla temporanea presa del potere da parte del movimento comunista. Ma già agli inizi del 1918, l’avanzata tedesca ebbe la meglio sul potere sovietico e, sebbene formalmente all’Estonia fosse garantita l’indipendenza, venne instaurato un regime di occupazione che mirava alla “germanizzazione” del paese e alla restituzione degli antichi privilegi alla nobiltà feudale. In seguito all’armistizio sovietico-tedesco, il paese venne rioccupato da truppe bolsceviche. Ma, con l’aiuto di contingenti stranieri e russi “bianchi” e della flotta britannica, il governo provvisorio estone, nel febbraio del 1919, riuscì a sgomberare tutto il territorio e a riaffermare l’indipendenza del paese, che durò fino al 1940. I governi che si succedettero furono tutti caratterizzati da tendenze conservatrici. Nel 1932 fu varata una riforma che trasformava il parlamento in senso “corporativo” e fino al 1938 il paese fu sottoposto ad un regime autoritario. Sul piano internazionale, l’Estonia, dopo aver siglato, insieme a Lituania e Lettonia la cosiddetta “intesa baltica”, nel 1939, stretta tra URSS e Germania, strinse un patto di mutua assistenza con l’Unione Sovietica. Nel giugno del 1940, i sovietici entrarono nel paese. Il 22 luglio dello stesso anno, l’Estonia diventava parte integrante dell’URSS. Dal 1941 al 1944, in seguito all’occupazione nazista, l’Estonia fu teatro di una sanguinosa guerra civile che vide contrapposti i sostenitori della resistenza antifascista e i soldati dell’ “Armata Rossa” ai nuclei di collaborazionisti, inquadrati direttamente nelle SS, che si resero responsabili, come nelle altre repubbliche baltiche, di massacri e rappresaglie in particolare contro comunisti ed ebrei. Tali avvenimenti segnarono duramente i primi anni del dopoguerra, dopo la sconfitta del nazismo. Ripreso il controllo, il potere sovietico adottò una politica di dura repressione contro gli esponenti del fascismo estone e quei settori della società che li avevano sostenuti (a cominciare dalla grande proprietà terriera), che fu accompagnata da deportazioni e dall’esodo di molti estoni, sospettati di avere collaborato con i nazisti. Contemporaneamente, attraverso una massiccia immigrazione dalle repubbliche slave dell’URSS, veniva avviato un processo di “russificazione” del paese, che, inevitabilmente doveva alimentare, tra gli estoni, fermenti nazionalistici e un forte risentimento verso Mosca. Così, quando, con l’avvento della “perestrojka” di Gorbaciov, fu lasciato spazio al pieno manifestarsi delle tendenze nazionaliste, le spinte più radicali verso la riconquista dell’indipendenza ben presto si manifestarono prepotentemente. Nel marzo del 1991, dopo che anche le componenti maggioritarie del partito comunista e della repubblica si erano schierate apertamente per l’opzione secessionista, nel corso del cosiddetto “referendum sull’Unione” il 78% della popolazione si pronunciava a favore dell’indipendenza. La definitiva separazione da Mosca avveniva il 20 agosto 1991, in seguito al fallito golpe che avrebbe aperto la strada allo smantellamento dell’URSS. Il partito comunista veniva dichiarato fuorilegge e non sarebbe stato più riammesso. L’Estonia indipendente otteneva in breve tempo il riconoscimento della comunità internazionale e della stessa Russia, le cui truppe avrebbero definitivamente lasciato il paese nell’agosto del 1994. Sul piano economico la scelta dell’Estonia si concretizzò nell’abbandono delle forme sovietiche di proprietà, nel ripristino della proprietà privata dei mezzi di produzione e in una politica di liberalizzazione dei prezzi e di progressivo inserimento nei meccanismi di mercato capitalistico. Nonostante il paese avesse rappresentato una delle più prospere repubbliche dell’ex URSS (e fosse stata protagonista di innovativi tentativi di “riforma economica” già negli anni ’70), la brusca interruzione dei rapporti con il mercato sovietico, tradizionale sbocco delle sue produzioni e da cui l’Estonia dipendeva per gli approvvigionamenti energetici, ha comportato in pratica il collasso del sistema industriale, la costosa scelta di dipendenza economica dall’occidente e pesanti conseguenze sul piano sociale, che si fanno tuttora sentire, e che potrebbero venire addirittura acutizzati dall’avanzare dei processi di integrazione nella costruzione europea. A farne le spese è stata in particolare la componente russa della popolazione (600.000), che rappresentava parte significativa della classe operaia presente nel paese. I russi e i “russofoni”, che sono venuti a trovarsi improvvisamente nella condizione di “occupanti”, non solo hanno pagato le conseguenze più serie della ristrutturazione economica, ma si sono visti privare di tutti i diritti di cittadinanza, compreso il diritto al lavoro a pari dignità con la popolazione autoctona e persino il diritto di voto. Tale comportamento dell’Estonia ha suscitato le proteste di numerose organizzazioni per i “diritti umani” e delle stesse autorità russe, ma non sembra avere intaccato il giudizio positivo dell’UE, che sta alla base dell’accettazione di questo paese baltico nel consesso europeo. In tal modo, la pratica assenza di un elettorato russo di una certa consistenza (l’unico partito della minoranza russa presente alle elezioni, il conservatore “Partito Unitario del Popolo Estone”, non supera il 2% dei voti), spiega in parte perché sia le elezioni presidenziali che quelle parlamentari abbiano visto un sostanziale equilibrio tra forze di centro-sinistra e centro-destra etnicamente estoni e sostanzialmente allineate nell’accettazione del nuovo corso economico e nella ricerca di interlocutori internazionali a occidente, nella NATO e nell’Unione Europea. Tale processo di avvicinamento all’occidente ha avuto il suo completamento nell’adesione dell’Estonia alla NATO (fortemente osteggiata dalla Russia, per la pericolosissima vicinanza delle future installazioni dell’Alleanza Atlantica ai centri nevralgici del paese), formalizzata al vertice NATO di Praga del novembre 2002, e nell’ingresso nell’Unione Europea, ratificato dal referendum svoltosi nel settembre del 2003. Al termine di un ciclo politico che ha visto alternarsi forze borghesi più o meno moderate, che vede alla presidenza della repubblica il “leader” dell’indipendenza Arnold Ruutel (già segretario del locale Partito Comunista!), solo il 58,2% dei cittadini chiamati al voto ha eletto nel marzo del 2003 un parlamento largamente dominato da partiti centristi e di destra moderata (“Partito di centro estone”, “Res Publica”, “Partito delle riforme estone” e “Unione del popolo estone”). Da aprile 2003, capo del governo (espresso dalla coalizione tra “Res Publica” e il “Partito delle riforme”), è stato eletto il trentaseienne Juhan Parts, uomo particolarmente legato agli interessi degli Stati Uniti nella regione baltica. L’unico partito che si definisca di sinistra alternativa, operante in Estonia, è il “Partito Social Democratico del Lavoro Estone” (ESDTP), che conta 1.250 iscritti ed è presieduto attualmente da Tiit Toomsalu. L’ESDTP ha ottenuto solo lo 0,4% dei voti nelle elezioni parlamentari. Il piccolo partito, che si è opposto all’ingresso dell’Estonia nella NATO e nell’UE e che si è battuto per i diritti civili della minoranza russa, ha aderito sia al “Forum della nuova sinistra europea” che al “Partito della Sinistra Europea” costituitosi l’11 gennaio 2004 a Berlino.

LETTONIA

La Lettonia, con i suoi circa 65.000 Kmq e 2,3 milioni di abitanti, rappresenta lo stato intermedio tra i tre già facenti parte dell’URSS, che si affacciano sul Mar Baltico. Solo il 57% della popolazione è costituito da lettoni, che parlano una lingua appartenente al gruppo baltico. Oltre il 33% è rappresentato da russi e “russofoni”, e circa l’8% da altre componenti slave (bielorussi, ucraini) che, nel periodo sovietico, in generale hanno sempre considerato il russo come loro prima lingua.
La Lettonia, costituitasi stato indipendente nel 1918 alla caduta dell’impero zarista, alla vigilia dell’invasione nazista dell’URSS, nel 1940, venne occupata dall’ “Armata Rossa” e proclamata repubblica sovietica. Dal 1941 al 1944 il paese fu sottoposto all’occupazione nazista, che si manifestò con particolare ferocia nei confronti della resistenza e nelle operazioni di sterminio degli ebrei, che portarono all’eliminazione fisica di oltre 90.000 persone di religione israelita. Nelle loro azioni, i nazisti erano affiancati da consistenti gruppi di collaborazionisti lettoni, inquadrati nei reparti delle SS, che, al momento dell’arruolamento, dovevano prestare giuramento direttamente a Hitler. Queste formazioni, note agli storici della resistenza per la loro ferocia, si resero protagoniste di massacri inenarrabili, che avevano come obiettivo, oltre agli ebrei, i militanti comunisti e gli appartenenti alle minoranze. In seguito alla liberazione del paese da parte dell’ “Armata Rossa”, molti fascisti cercarono rifugio nelle folte foreste che coprono il territorio della Lettonia, proclamandosi “fratelli dei boschi”, e, con l’aiuto dei proprietari terrieri e di settori della popolazione contadina (una vera e propria “Vandea”), cercarono di opporre una disperata resistenza, che si manifestava in attentati terroristici e in uccisioni individuali: centinaia di comunisti, impegnati nella costruzione del potere sovietico, vennero così massacrati nei primi anni del dopoguerra, fino a quando il movimento terroristico fascista (a cui non sono certo attribuibili le caratteristiche di “movimento di liberazione nazionale” sbandierate dalle attuali autorità, impegnate in una preoccupante operazione di riabilitazione storica del collaborazionismo lettone) venne definitivamente represso. Seguirono, in epoca staliniana, una serie di misure particolarmente severe che comportarono la deportazione in altre repubbliche di circa 200.000 persone e l’immigrazione massiccia in Lettonia di russi, bielorussi e ucraini, che andarono a costituire il nerbo del locale proletariato industriale. Anche se, a partire dagli anni ’60, la situazione parve normalizzarsi, attraverso un deciso rilancio dell’economia e del settore industriale ed un significativo innalzamento del livello di vita e delle prestazioni sociali, le tensioni postbelliche non arrivarono mai ad una definitiva composizione. Così quando, con la “perestrojka”, i fermenti nazionalisti e anticomunisti affiorarono in superficie, le tendenze “revansciste” e separatiste, guidate dal cosiddetto “Fronte popolare”, ripresero vigore, fino ad invocare l’indipendenza, attraverso la proclamazione della sovranità nel maggio del 1989 e la definitiva divisione dall’URSS, avvenuta nell’agosto del 1991.
Da quel momento, la Lettonia, subito riconosciuta dall’Occidente, e guidata allora dal movimento moderato nazionalista “Via Lettone”, si incamminò sulla strada delle riforme capitalistiche, rompendo i legami con il mercato sovietico, che le avevano permesso di diventare, insieme all’Estonia, la più prospera repubblica dell’Unione Sovietica, e ad avviare trasformazioni strutturali in senso liberista, che dovevano portare in breve tempo all’esplodere di una crisi economica di vaste proporzioni. A pagarne le conseguenze è stata in primo luogo la classe operaia, che ha assistito allo smantellamento di un apparato produttivo, che aveva perso i tradizionali mercati di sbocco. E, dal momento che il proletariato è rappresentato in larga parte da cittadini russi o “russofoni”, la “questione sociale” è venuta così mescolandosi con la “questione nazionale”. Fin dal 1991, i governi che si sono succeduti hanno praticato una politica che, non solo ha teso ad impedire la riorganizzazione di un forte movimento operaio (attraverso, innanzitutto, la messa al bando del Partito Comunista e l’incarcerazione dei suoi massimi dirigenti, costretti a lunghi anni di detenzione e spesso condannati retroattivamente per la loro partecipazione alla repressione del collaborazionismo locale nell’immediato dopoguerra: tanto da sollevare l’indignazione dello stesso presidente russo Putin, che ha definito questi anziani partigiani “valorosi combattenti della Grande Guerra Patriottica”), ma che ha puntato (tra le proteste di alcune organizzazioni umanitarie, ma nella sostanziale indifferenza delle istituzioni internazionali) alla realizzazione di una vera e propria “pulizia etnica”. Dopo il 1991, in Lettonia oltre mezzo milione di cittadini appartenenti alle minoranze nazionali è stato privato dei diritti civili. Costoro non beneficiano né del diritto di voto, né del diritto di impiego nella funzione pubblica. Non godono della pensione e vengono discriminati nelle richieste di affitto e di lavoro. Sul loro passaporto figura addirittura la dicitura “non cittadino”. Il governo è arrivato al punto di adottare una legge che viola il diritto fondamentale all’insegnamento nella propria lingua madre. Secondo la nuova legislazione, solamente le scuole che insegnano in lingua lettone verranno sovvenzionate. Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio regime di “apartheid”, a cui l’Unione Europea (ma, dispiace affermarlo, la stessa sinistra del continente, con l’eccezione dei comunisti greci e di alcune componenti comuniste italiane e belghe) non hanno saputo rispondere se non con qualche timida reprimenda.
Tutto ciò non ha impedito che la Lettonia venisse accolta nel “salotto buono” del mondo occidentale, attraverso il suo inserimento nelle strutture sia della NATO che dell’Unione Europea. Così, tra il novembre del 2002 e la fine del 2003, la Lettonia, che ha pagato il suo ingresso nel consesso occidentale con costi sociali inauditi (ad esempio, il sistema agricolo rischia il collasso con l’entrata in vigore dei vincoli europei), si è ritrovata tra i paesi legati al carro delle avventure americane nel mondo, con l’obbligo di destinare cifre ingenti del suo bilancio alle spese militari e ad inviare truppe in giro per il mondo, in caso di richiesta (un piccolo contingente lettone è presente in Iraq).
Né il presidente della repubblica Vaira Vike-Freiberga, né i governi che si sono succeduti in questi 12 anni non si sono mai opposti a tale corso della politica nazionale. E, più di tutti, l’ultimo di centro-destra che, dopo le elezioni dell’ottobre 2002, è diretto da Einars Repse ed esprime una coalizione formata al Saeima (parlamento) da “Nuova Era” ( con il 23,9%, partito di maggioranza relativa), dal “Primo partito di Lettonia” (9,6%) e da altre formazioni minori di orientamento conservatore. Anche in occasione del referendum per l’adesione all’Unione Europea, salutato dalla retorica “europeista” come espressione della volontà popolare lettone, è stato impedito ad oltre il 20% degli abitanti di votare. Al contrario delle altre repubbliche baltiche, in Lettonia i comunisti (fuorilegge, anche dopo l’ingresso nell’UE) hanno cercato di riorganizzarsi, attraverso nuove coperture legali. Nel gennaio del 1994 è stato così fondato il Partito Socialista di Lettonia (LSP), alla cui guida, dopo una lunga detenzione, è stato eletto Alfred Rubiks, leader del Partito Comunista di Lettonia fino all’agosto 1991. Il Partito Socialista, decisamente contrario all’integrazione nel sistema occidentale di alleanze, si pronuncia per la creazione di un sistema “protetto socialmente sulla base della teoria marxista” e intende difendere “gli interessi politici e sociali del popolo lavoratore”. Il Partito Socialista è particolarmente attivo nella lotta in difesa dei valori antifascisti e contro il regime di “apartheid”, attraverso l’organizzazione di incisive lotte, che hanno mobilitato decine di migliaia di persone, ottenendo anche qualche parziale risultato. Il Partito Socialista è la più importante tra le forze di sinistra ( le altre sono il “Partito della concordia del popolo”, difensore dei diritti civili, e il “Movimento per l’uguaglianza”, in rappresentanza della minoranza russa) che hanno dato vita alla coalizione “Per i diritti dell’uomo in una Lettonia unita”, che, nelle ultime elezioni, è diventata la seconda forza politica con il 19,1% dei voti (rispetto al 14,2% della precedente consultazione). La coalizione ha preso parte, in veste di osservatore, alla riunione di Berlino in cui è nato il “Partito della Sinistra Europea”, decidendo di non aderirvi.

LITUANIA

La Lituania, con una superficie di 65.200 Kmq e una popolazione di 3,5 milioni di abitanti, è la più meridionale delle repubbliche baltiche ex sovietiche. A differenza di Lettonia ed Estonia, in questa repubblica oltre l’80% della popolazione è costituita da lituani (8,7% di russi e 7% di polacchi), in gran parte cattolici, che parlano una lingua del gruppo baltico. Annessa alla Russia alla fine del 1700, occupata dai tedeschi durante la prima guerra mondiale, la Lituania riconquistò l’indipendenza nel 1918. Governata, a partire dal 1926 dal regime autoritario di Antanas Smetona, la Lituania adottò una costituzione di tipo corporativo (fascista) nel 1938. Dopo l’accordo sovietico-tedesco, la Lituania, come le altre repubbliche baltiche, fu inclusa nell’Unione Sovietica, dopo avere ottenuto la restituzione dell’attuale capitale Vilnius, fino ad allora sotto controllo polacco. L’occupazione nazista (1941-1944), appoggiata dalle feroci formazioni fasciste locali (si distinse il padre di Vytautas Landsbergis, il leader più conosciuto del movimento indipendentista che riconquistò l’indipendenza nel 1991), si rese responsabile, fra l’altro, del massacro e della deportazione nei campi di sterminio di oltre 240.000 ebrei, che costituivano una delle più significative comunità israelitiche europee. Il periodo postbellico di potere sovietico, caratterizzato da un rilevante afflusso di investimenti e di risorse energetiche, nonostante un livello di industrializzazione meno elevato che in Lettonia ed Estonia, ha favorito una significativa crescita dell’economia, in particolare del settore agro-industriale (l’agricoltura lituana era tra le più produttive dell’URSS), ponendo la Lituania ai primi posti per livelli di benessere tra le repubbliche sovietiche. La “sovietizzazione” comportò una fase particolarmente dura di repressione dei fermenti nazionalistici, caratterizzato anche da deportazioni di cittadini lituani. Il processo di “russificazione” fu però meno rilevante che negli altri paesi del Baltico. Per questa ragione la Lituania, in cui un ruolo di particolare rilievo nella conservazione delle tradizioni nazionali è stato svolto dalla locale Chiesa cattolica, è stato il primo paese a proclamare l’indipendenza, confermata dall’adesione quasi plebiscitaria (90%) alla richiesta di distacco da Mosca nel referendum del marzo 1991. Solo il collasso dell’URSS ha però portato al riconoscimento internazionale del nuovo stato, alla cui guida si è trovato, nell’agosto ’91, il movimento nazionalista di destra (Sajudis) di Vytautas Landsbergis. Fu subito avviato un processo di restaurazione capitalistica, improntato al liberismo più sfrenato, da cui sono presto derivati gravissimi squilibri economici e sociali. L’inflazione galoppante, la penuria di combustibile (dovuta alla brusca interruzione delle relazioni economiche con il mercato ex sovietico), che arrivò addirittura a provocare la totale mancanza di riscaldamento, e la crisi del settore agricolo, seguita al riassetto proprietario dopo la privatizzazione delle terre, alimentarono un vasto malcontento popolare, che portò, nel 1992, alla clamorosa disfatta del “Sajudis” e alla vittoria degli ex comunisti di Algirdas Brazauskas (“Partito democratico del lavoro”, negli anni seguenti, trasformatosi in “Partito socialdemocratico lituano”, aderente all’Internazionale Socialista, che insieme ad altre forze minori, tra cui l’ “Unione lituano-russa” in rappresentanza della minoranza russofona, ha dato vita alla cosiddetta “Coalizione socialdemocratica”) favorevoli a riforme più caute e graduali. Nel corso degli anni ’90, che hanno visto l’alternarsi di governi di centro-destra e di centro-sinistra, la linea predominante di politica estera è stata la ricerca dell’integrazione della Lituania nell’ambito delle alleanze occidentali. Sono proprio i governi “socialdemocratici”, del resto, quelli che più si sono attivati (trovando sostegno nella stessa “Internazionale Socialista”) per avvicinare il paese all’Unione Europea e alla NATO. Lo stesso Brazauskas ha fatto della “vocazione europea e occidentale” della Lituania uno dei suoi “cavalli di battaglia” e, dal 2001, in seguito alla vittoria elettorale nelle elezioni dell’ottobre 2000, è alla guida del governo di coalizione tra i “socialdemocratici” e la “Nuova Unione dei social-liberali”, che ha sancito l’ingresso formale ( tra il 2002 e il 2003) della repubblica baltica nel sistema di alleanze dell’Occidente. Durante il premierato di Brazauskas, nel gennaio del 2003, al ballottaggio, Rolandas Pauskas, del Partito liberaldemocratico lettone, batteva il presidente della repubblica uscente Valdas Adamkus, facoltoso emigrato negli USA, eletto a sorpresa nel 1998. Il nuovo presidente della repubblica si è trovato ben presto al centro di un clamoroso scandalo, per i suoi legami con ambienti della mafia russa, e, nell’ultimo scorcio del 2003, in seguito a grandi manifestazioni popolari, ha dovuto subire l’avvio delle procedure di “impeachment”. In Lituania, anche per una più limitata presenza della componente russa che, in generale, rappresentava il nucleo operaio delle strutture comuniste, quando le repubbliche baltiche facevano parte dell’URSS, la sinistra è oggi elettoralmente rappresentata in modo quasi esclusivo dal “Partito socialdemocratico lituano”. Il Partito Comunista Lituano (PCL), messo brutalmente fuorilegge all’indomani dell’indipendenza, non ha più riacquistato una veste legale (il piccolo Partito Socialista di Lituania, costituito da alcuni militanti comunisti e presieduto da Mindaugas Stakvilevicius, svolge un ruolo molto marginale). Molti militanti comunisti, costretti alla più assoluta clandestinità, sono stati sottoposti a persecuzioni di ogni tipo, purtroppo passate inosservate persino alla gran parte della sinistra antagonista europea. Dirigenti del PCL sono stati sottoposti a torture e maltrattamenti, ed altri, nei primi anni ’90, sono stati persino rapiti in Bielorussia, dove si erano rifugiati, in conseguenza di un blitz, effettuato dai servizi segreti lituani. Solo negli ultimi mesi del 2003, grazie all’iniziativa del Partito Comunista di Grecia (l’unico che, in sede europea, si è finora battuto con vigore e coerenza contro le ricorrenti violazioni dei diritti umani nei paesi ex socialisti del nostro continente), Stratis Korakas, parlamentare europeo di questo partito ha potuto fare visita agli anziani leader del PCL (Mikolas Burakiavitsious e Giuozas Kuolialis), tuttora detenuti nelle carceri di Vilnius, chiedendone il rilascio immediato e sollecitando l’interessamento degli organismi competenti europei, che, naturalmente, è ancora una volta venuto meno.

PAESI DELLA CSI (CONFEDERAZIONE DEGLI STATI INDIPENDENTI)

BIELORUSSIA

La Bielorussia (Russia Bianca) è uno stato con un’estensione di 207.600 Kmq e una popolazione di oltre 10 milioni di abitanti, costituita per il 78% da bielorussi, che parlano una lingua slava orientale come il russo e che praticano per oltre l’80% la religione cristiana ortodossa, e per la parte restante da oltre un milione di russi, 400.000 ucraini e alcune centinaia di migliaia di polacchi. C’è da aggiungere che il 48% delle famiglie è composto da russi e bielorussi. Il bielorusso e il russo sono considerati entrambi lingua di stato. Gli elementi che accomunano storicamente e culturalmente i due popoli sono talmente solidi, da aver impedito in questi ultimi anni che le tendenze nazionaliste (su cui ha puntato l’Occidente dopo il 1991) riuscissero a consolidare un reale sostegno di massa. C’è da osservare, tra l’altro, che la Bielorussia, che ha tributato milioni di vittime alla guerra contro il nazifascismo, era, tra le repubbliche sovietiche, quella in cui più radicato appariva il consenso attorno al partito comunista. Anche oggi, persino tra la stessa opposizione all’attuale governo del presidente Aleksandr Lukashenko, è presente una forza (uno dei due partiti comunisti) che non nasconde un atteggiamento completamente acritico nei confronti dell’intera esperienza sovietica.
Ecco la ragione per cui, quando il 25 agosto 1991, a pochi giorni dal fallito golpe di Mosca, la “Repubblica Socialista Sovietica di Bielorussia”, per impulso delle manifestazioni organizzate dal movimento separatista “Adradzennie” (Rinascita), proclamò, al pari delle altre repubbliche dell’URSS, la propria indipendenza, già allora a molti tale avvenimento apparve come una forzatura.
La presidenza fu assunta da Stanislau Suskievic, speaker del locale Soviet Supremo, e lo stato assunse il nome di “Repubblica di Belarus”. Egli intraprese una politica tesa a costruire nel paese una “coscienza nazionale”, in grado di spezzare i legami storici con la Russia, ma i tentativi apparvero grotteschi alla maggior parte della popolazione. Se si aggiunge che l’estremismo nazionalista si accompagnava all’avvio di un corso economico, improntato alle ricette, suggerite dai protettori occidentali, improntate all’ultraliberismo e accompagnate da ambiziosi progetti di privatizzazione, ben presto il malcontento, generato dal rapido deteriorarsi delle protezioni sociali, si manifestò in forme di quasi plebiscitaria disaffezione nei confronti del “nuovo corso”. In tal modo, alle elezioni presidenziali dell’estate del 1994, Aleksandr Lukashenko, ex istruttore politico del KGB, tra i pochi coraggiosi parlamentari che, nel dicembre 1991, si erano pronunciati contro la dissoluzione dell’URSS, e noto per il suo rigore nella lotta contro la corruzione, sbaragliava, ottenendo l’81,7% dei voti, il suo avversario, il primo ministro Viaceslau Kiebic, che rassegnava immediatamente le sue dimissioni dalla carica. Lukashenko, che si pronunciava subito per l’avvio di un processo di ricomposizione dell’unità politica ed economica almeno delle repubbliche europee dell’ex URSS, proponeva nel 1995 alcuni quesiti referendari con proposte di modifica costituzionale, tese a rafforzare tale processo. Nello stesso tempo, Lukashenko, non solo si pronunciava apertamente contro l’ipotesi dell’allargamento ulteriore ad Est della NATO, ma ne denunciava il carattere di alleanza aggressiva e prevaricatrice della volontà degli stati e dei popoli che non intendono assoggettarsi al “nuovo ordine mondiale”. A questo punto, le opposizioni nazionaliste cominciavano una violenta (seppur molto minoritaria) campagna tesa a dimostrare l’involuzione autoritaria della nuova amministrazione e, soprattutto, a richiamare l’attenzione dell’Occidente (in particolare degli USA) sulla presunta precarietà della situazione dei “diritti dell’uomo” in Bielorussia. L’assalto propagandistico contro il presidente bielorusso è stato naturalmente accompagnato dalle abituali menzogne che caratterizzano tutte le campagne denigratorie che partono dall’Occidente: ad esempio, è stata dimostrata l’assoluta infondatezza delle accuse rivolte a Lukashenko di aver commissionato l’assassinio di alcuni oppositori politici, quando un osservatore inglese di “Human Right Watch” ha scoperto che i personaggi in questione vivevano tranquillamente a Londra. E’ da quel momento che ha inizio il processo di delegittimazione internazionale di Lukashenko e di inserimento della Bielorussia nella lista dei cosiddetti “stati canaglia”, fino alla decisione, maturata negli ultimi anni dal Congresso USA e dalla maggioranza dei paesi della Commissione Europea, di dichiarare il presidente “persona non gradita” in Occidente. Il referendum, voluto da Lukashenko, si svolse ugualmente e oltre l’80% dei cittadini si pronunciò positivamente sulle richieste di unione economica con la Russia, di ripristino dei simboli sovietici, di adozione del russo quale seconda lingua ufficiale. Da quel momento la politica del presidente, favorevole all’adozione di un modello di “economia mista” che, pur non rinunciando a sostenere il settore privato, fosse in grado di garantire, al contrario di quanto è avvenuto negli altri paesi ex sovietici, il controllo pubblico dei settori strategici, la difesa dell’apparato produttivo e di livelli adeguati di occupazione e uno standard minimo di protezione sociale dei settori meno privilegiati della popolazione, ha tenacemente perseguito il progetto di unificazione dello spazio ex sovietico, prendendo spesso l’iniziativa anche nei confronti della Russia. Il 2 aprile 1996, gli sforzi bielorussi ottenevano un primo successo, con la stipula da parte di Mosca e di Minsk del “Trattato di Unione Russo-Bielorussa”, primo passo verso la realizzazione dell’unificazione politica, economica e militare tra i due paesi, che dovrebbe completarsi nei prossimi anni, anche attraverso l’elezione di un parlamento comune. Pur tra le resistenze dei settori filoccidentali russi e bielorussi, le continue minacce degli USA (che non hanno esitato a trasferire alcune basi militari in Polonia, a ridosso della frontiera bielorussa) e gli inevitabili contrasti tra i due partner nella definizione delle procedure di unificazione, oggi il cammino verso l’unità con la Russia (a cui ha dichiarato l’intenzione di associarsi anche la Moldavia, dopo l’avvento dei comunisti al governo) sembra procedere, anche se in modo graduale, verso il suo completamento. La politica del presidente è stata confortata finora da una massiccio sostegno elettorale: nel marzo del 2000 il blocco cosiddetto degli “indipendenti”, creato a sostegno di Lukashenko, ha raccolto ben l’82,3% dei voti nelle elezioni legislative (che hanno registrato una partecipazione di circa il 60% degli elettori, dopo il boicottaggio proclamato da alcune delle forze nazionaliste, a cominciare dal “Fronte Popolare Bielorusso”), a cui va aggiunto il 6,1% del Partito Comunista di Belarus (KPB) e il 4,4% del Partito Agrario (vicino ai comunisti). C’è da rilevare che il Partito Comunista, nel 1996, aveva subito una grave scissione dopo la decisione delle sue componenti più settarie di collocarsi all’opposizione, in nome di un richiamo puramente nostalgico al passato sovietico, non disdegnando, in compenso, di partecipare alle violente manifestazioni organizzate da settori finanziati dagli USA, comprendenti forze che non nascondono di riferirsi a quell’ultranazionalismo che, durante la sanguinosa occupazione nazista, collaborò con le SS. Questo “Partito bielorusso dei comunisti” (PKB), a differenza della maggior parte delle altre componenti dell’opposizione, si è presentato alle elezioni, raccogliendo il 6,6% dei suffragi. L’attuale governo è composto da rappresentanti degli “indipendenti”, del KPB e del Partito Agrario, ed è presieduto da Serghey Sidorsky. Precedute da una violenta campagna diretta dall’estero, con l’attiva partecipazione alle manifestazioni elettorali di cittadini statunitensi, la consultazione presidenziale del 9 settembre 2001 ha visto la schiacciante vittoria di Lukashenko che, con il 75,6% dei voti, ha sconfitto il sindacalista Vladimir Goncharik, rappresentante del fronte delle opposizioni, che, in tale occasione, non ha rinunciato alla competizione. C’è anche da rilevare che la grande maggioranza delle migliaia di osservatori esteri ha dovuto riconoscere la piena correttezza dello svolgimento del voto (che è stato espresso dall’83,9% degli aventi diritto) e che negli stessi USA si sono levate voci che hanno espresso dubbi circa la reale influenza dell’opposizione.

MOLDAVIA

La Moldavia (Repubblica di Moldova) è un piccolo stato (34.000 chilometri quadrati e 4 milioni e mezzo di abitanti) facente parte della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), situato nell’Europa sud orientale e confinante con Romania e Ucraina. La sua popolazione è costituita per quasi due terzi da moldavi di lingua romena e, per il resto, da una forte minoranza russofona di russi, ucraini e bielorussi. Nel territorio della repubblica (Gagauzia) abitano anche circa 200.000 turchi cristianizzati. La Moldavia, che fino al 1917 faceva parte dell’impero zarista, si costituì, durante la rivoluzione, in “Repubblica Democratica Moldava” indipendente. Nel 1918, fu proclamata l’unione con la Romania, che non venne mai riconosciuta dall’Unione Sovietica, la quale, nel 1940, in seguito al patto russo-tedesco, riprese il controllo della regione, almeno fino all’inizio dell’aggressione nazifascista. Con la vittoria dell’Armata Rossa, la Moldavia fu definitivamente incorporata nell’URSS. Venne così inaugurato un periodo di sviluppo economico, sociale e culturale, mai conseguito in precedenza, che ha assicurato alla popolazione un livello di relativo benessere. E’ con la “perestrojka”, dopo il 1985, che comincia a manifestarsi una massiccia agitazione nazionalista romena, che si organizza nel cosiddetto “Fronte popolare”. Nel 1990 le autorità locali, dietro pressione dei nazionalisti, approvano una serie di misure che influenzeranno in modo decisivo lo sviluppo della situazione nel paese: si decide di adottare l’alfabeto latino al posto di quello cirillico e si avvia quella politica di “derussificazione” e di “pulizia etnica”, che costituirà il pretesto per lo scatenamento dello scontro con le minoranze nazionali. Il 27 agosto 1991, alla vigilia del dissolvimento dell’URSS, è proclamata l’indipendenza. Come reazione, viene avanzata la richiesta di indipendenza della cosiddetta “Repubblica della Transdnistria” (con capitale Tiraspol), abitata in grande maggioranza da russi e ucraini. I nazionalisti romeni rispondono con durezza a tali rivendicazioni, procedendo alla quasi totale liquidazione dell’istruzione in lingua russa e cercando di risolvere con la forza la questione della Transdnistria, attraverso lo scatenamento di un sanguinoso conflitto, che si protrae fino al 1992, quando l’indipendenza viene congelata e considerata operante solo in caso di riunificazione della Moldavia alla Romania.
Il decennio che ha visto avvicendarsi al governo le forze di ispirazione nazionalista borghese, ha avuto conseguenze che non è azzardato definire catastrofiche sulle condizioni economiche e sociali della repubblica. Il susseguirsi di dissennate “riforme”, all’insegna del liberismo più sfrenato e della dipendenza dagli interessi dei nuovi alleati occidentali, ha fatto della Moldavia il paese più povero d’Europa, con il non invidiabile record del più elevato tasso di emigrazione a livello continentale.
Il malcontento, generato da questo autentico disastro, è sfociato in una clamorosa manifestazione di ripulsa popolare, in occasione delle elezioni politiche svoltesi il 25 febbraio 2001, con la travolgente vittoria (maggioranza assoluta dei voti e 70% dei seggi) del Partito dei Comunisti della Repubblica di Moldova (PCRM). Per la prima volta, dalla fine dell’URSS, in Europa orientale (fatto di straordinario valore simbolico) i comunisti tornavano, in modo assolutamente democratico, alla direzione dello stato. Il parlamento, poco tempo dopo, procedeva all’elezione alla presidenza della repubblica del leader del PCRM Vladimir Voronin. L’affermazione dei comunisti veniva confermata anche dalle elezioni amministrative svoltesi nel 2003, con la conquista di quasi il 50% dei voti e dei due terzi delle amministrazioni locali.
Dal momento dell’arrivo al governo, i comunisti, pur tra enormi difficoltà e in un contesto internazionale non certo favorevole alle forze di progresso dopo la caduta del contrappeso socialista, hanno cercato di trovare una soluzione alla terribile crisi ereditata.
Si sono introdotte misure tese ad assicurare una maggiore presenza regolatrice dello stato. Si è cercato di frenare la corruzione dilagante. I mezzi finanziari a disposizione sono stati indirizzati allo sviluppo della produzione industriale (che ha visto un netto aumento degli ordini da parte di partner del mercato ex sovietico) e dell’agricoltura. Per la prima volta, come ha dovuto riconoscere lo stesso FMI, il PIL ha registrato un incremento del 6%. Successi sono stati registrati nella sfera sociale, a cominciare dalla corresponsione di salari e pensioni non pagati in precedenza.
Gli attuali dirigenti si sono poi sforzati di ricercare l’integrazione nel mercato ex sovietico – tradizionale partner della Moldavia -, sapendo bene che questo è l’unico modo per garantire una ragionevole ripresa della dissanguata economia nazionale. Il conseguente riavvicinamento alla Russia, favorito dall’atteggiamento costruttivo del presidente Putin, e la richiesta di partecipare a diverse forme di cooperazione nell’ambito della CSI, con l’intenzione di associarsi al processo di unione in corso tra Russia e Bielorussia, hanno prodotto non solo un incremento della collaborazione economica con Mosca, ma anche la decisione russa di concedere alla Moldavia forniture energetiche a condizioni convenienti, inserendola in un sistema integrato con Federazione Russa e Ucraina.
Tale “disgelo” nella politica verso la Russia, ha comportato significative aperture sul piano del rispetto dei diritti della minoranza russa, la proposta di reintroduzione del russo quale lingua ufficiale di pari dignità con il romeno (concretizzatasi alla fine del 2003) e la ricerca tenace di un’intesa negoziata della questione della Transdnistria,
La Moldavia sta anche cercando di diversificare la sua iniziativa internazionale, intessendo nuove relazioni: ne è prova l’interessamento manifestato verso l’attività della poderosa “Organizzazione per la cooperazione di Shanghai” (che raccoglie Russia, Cina e alcune repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale) e la realizzazione di accordi commerciali con la Repubblica Popolare Cinese.
Era scontato che il cambiamento avvenuto in Moldavia dovesse provocare reazioni in ambito occidentale, dove si trovano i principali interlocutori dei precedenti governi, e soprattutto da parte della Romania (oggi in procinto di entrare nella NATO), che ha manifestato in diverse occasioni il suo dissenso rispetto alle scelte di riavvicinamento alla Russia. Con l’appoggio esplicito della Romania, nei mesi scorsi sono venute allo scoperto le manovre dell’opposizione nazionalista (massicciamente finanziata oltreoceano, con un significativo contributo del solito Soros) alla presidenza Voronin. Violente manifestazioni hanno così sconvolto la capitale Kishinev, rivendicando la discriminazione della lingua russa, inneggiando alla “Grande Romania” e invocando l’aiuto della NATO, per “rovesciare il regime comunista asservito a Mosca”. L’opposizione di destra, guidata “Partito Popolare Cristiano Democratico” del fanatico ultranazionalista Jurije Roshka, ha anche invocato l’allontanamento della Russia dal tavolo negoziale sulla Transdnitria e l’intervento diretto della NATO a Tiraspol, provocando in tal modo una durissima reazione di Mosca. Di fronte al crescere delle provocazioni nazionaliste, il presidente Voronin e il governo hanno saputo dar prova di grande senso di responsabilità, accettando le raccomandazioni a stemperare la tensione fatte dagli organismi internazionali e addirittura estendendo le garanzie democratiche di manifestazione. All’inizio del 2004 le manifestazioni dell’opposizione (a cui, per la verità, prendono parte poche centinaia di persone) sono proseguite. A metà gennaio, Jurije Roshka ha esplicitamente minacciato di accingersi alla preparazione di un vero e proprio colpo di stato, citando, quale modello da seguire, il corso degli avvenimenti che in Georgia hanno portato recentemente al potere un regime appoggiato da Washington e che sembra puntare a una completa e pericolosa rottura con la Russia.

L’UCRAINA

L’Ucraina, con i suoi 603.700 Kmq e circa 50 milioni di abitanti, ha fatto parte, fin dal 1654 (attraverso un’unione volontaria in funzione antipolacca), dell’impero zarista e, in seguito, è diventata la più importante (dopo la Russia) delle repubbliche europee che costituivano l’ Unione Sovietica. La popolazione è costituita per circa il 70% da ucraini, che parlano una lingua slava orientale (che alcuni linguisti russi, con una forzatura, considerano addirittura una variante dialettale del russo) e praticano in maggioranza la religione cristiana ortodossa, attraversata da una lacerante scissione tra fedeli al patriarcato di Kiev e a quello di Mosca. Nella parte occidentale, dove le manifestazioni nazionalistiche appaiono più esasperate, circa 5 milioni di abitanti si professano cattolici di rito greco (uniate). Circa un quarto della popolazione è rappresentata da russi, concentrati nei centri urbani, nelle regioni orientali e soprattutto nella penisola di Crimea (dove rappresentano il 67% e fortissime sono le spinte al ricongiungimento con la Russia, da cui la Crimea fu staccata, in epoca sovietica, nel 1954), mentre una parte consistente degli stessi ucraini, abitanti in queste zone del paese, considera il russo come propria “lingua madre”. Gli ebrei, molto numerosi prima dello sterminio nazista, sono ridotti a 500.000 circa.
Nell’agosto del 1991, violando la volontà popolare espressa nel corso del referendum “sull’Unione” svoltosi nel marzo dello stesso anno, la “nomenklatura” del partito comunista ucraino, che fino ad allora aveva mantenuto un atteggiamento molto prudente (tanto da essere inclusa nel fronte dei cosiddetti “conservatori” ostili alla “perestrojka” di Gorbaciov), prendeva la testa delle posizioni separatiste più oltranziste e dichiarava la sua indipendenza da Mosca. L’ex comunista Leonid Kravciuk veniva eletto presidente nel dicembre del 1991 e, insieme a Eltsin e a Suskievic (leader bielorusso), siglava lo scioglimento dell’URSS. Da quel momento il regime al potere, allineatosi alle raccomandazioni che venivano dall’Occidente, ha condotto una politica ispirata ideologicamente al più esasperato nazionalismo, manifestatosi, soprattutto nell’emarginazione e nella discriminazione della minoranza russa. Sul piano delle scelte economiche, il paese ha subito la continua pesante pressione degli organismi internazionali, che aveva lo scopo di costringerlo ad adottare piani di riforma improntati ai modelli neoliberisti. Gli effetti della subalternità a tale politica sono stati devastanti: il discreto sistema di infrastrutture che stava alla base dello “stato sociale” sovietico è stato smantellato e oggi l’Ucraina è uno dei paesi più poveri d’Europa, dove secondo dati ufficiali, 100 persone abbandonano quotidianamente il paese in cerca di condizioni migliori di vita all’estero. In Ucraina sono venuti emergendo, in maniera impressionante, fenomeni di “economia criminale”, attraverso il diffondersi di “clan” strutturati a livello regionale, che rappresentano la base materiale dell’esistenza di molte delle strutture di potere, a cominciare dai partiti che, di volta in volta, si sono succeduti al governo. L’allentamento dei legami con la Russia e con gli altri componenti del mercato ex sovietico, da cui l’Ucraina dipendeva per il rifornimento delle risorse energetiche, ha avuto inevitabili conseguenze nel drastico ridimensionamento dell’apparato produttivo. Nel 1994, l’avvento alla presidenza della repubblica di Leonid Kuchma (riconfermato nel 1999), uomo legato ai potentati della regione mineraria del Donetsk (i più dipendenti dai legami economici con la Russia), con la confluenza dei voti delle sinistre e dell’elettorato “russofono” al secondo turno, ha fatto sperare in un relativo ammorbidimento delle forme più intransigenti di nazionalismo. E ciò, almeno in parte, è avvenuto. Ma, nel complesso, il processo di “ucrainizzazione” è proseguito, trovando il più prezioso supporto nell’atteggiamento dell’Occidente, in particolare degli Stati Uniti, che, dal momento dell’implosione dell’URSS, non solo considerano l’Ucraina uno “stato cuscinetto”, ma nutrono l’ambizione di inglobarla nel sistema di alleanze politiche, economiche e militari da essi controllato, spingendo per l’ingresso formale di Kiev nella NATO. Gli USA, nella loro politica di pesante ingerenza nella politica interna, di cui hanno cercato di condizionare tutti i passaggi fondamentali, hanno fatto affidamento soprattutto sugli ambienti economici e sulle “elite” intellettuali dell’Ucraina occidentale. E, grazie al massiccio sostegno ottenuto oltreoceano, sono proprio le forze di orientamento nazionalista e filoccidentale (comprendenti anche gli eredi del collaborazionismo con l’occupazione nazista), che, nel corso delle ultime elezioni politiche del marzo 2002, hanno ottenuto un significativo successo (il blocco “Nostra Ucraina” di Viktor Juschenko è al primo posto, con il 23,6%, mentre i suoi alleati del blocco elettorale di Julija Timoshenko raggiungono il 7,2%). Il partito del presidente, “Per l’Ucraina Unita”, non supera l’11,8%, pur ottenendo molti deputati nei collegi uninominali, che gli permettono comunque di governare insieme a raggruppamenti elettorali minori e a numerosi deputati “indipendenti”. Ma dopo le elezioni del 2002, il corso politico del paese, che, con l’avvento del nuovo secolo, sembrava aver imboccato la strada del riavvicinamento alla Russia, soprattutto sul piano della collaborazione economica e attraverso la progressiva integrazione nei meccanismi comunitari che sono stati creati nell’ambito della Confederazione degli Stati Indipendenti (CSI), premuto dalla massiccia agitazione dello schieramento nazional-liberista, che punta direttamente al controllo del potere (in vista delle imminenti elezioni presidenziali), è andato gradatamente riorientandosi verso l’Occidente, annunciando nel maggio 2002 l’intenzione di abbandonare la neutralità, attraverso la richiesta formale di ingresso nella NATO. In seguito l’Ucraina ha inviato un contingente di ben 1.600 uomini (sotto comando polacco) in Iraq, prendendo parte attiva alle operazioni di repressione della resistenza. Anche con la Russia si sono manifestate nuovamente frizioni, con l’apertura di un contenzioso territoriale in Crimea. Allo stesso tempo, sul piano interno, è andata accentuandosi la stretta repressiva nei confronti del forte movimento operaio e antimperialista presente nel paese, attraverso gli imprigionamenti e l’uso della tortura, fino a provocare la morte di militanti dell’estrema sinistra, accusati addirittura di “cospirazione”. Oggi in Ucraina è presente un forte “Partito Comunista di Ucraina” (KPU), che raccoglie il 20% dei suffragi elettorali, concentrati nelle regioni centro-orientali del paese e in Crimea (dove ottiene la maggioranza assoluta), in particolare tra la minoranza russa. Se poi al KPU aggiungiamo i voti del “Partito Progressista Socialista di Ucraina” (PSPU) di Natalija Vitrenko e di alcune altre formazioni (che però non hanno superato lo sbarramento del 4%, previsto per accedere alla Rada), possiamo affermare che le forze comuniste rappresentano oltre un quarto dell’elettorato. Il KPU, presieduto da Piotr Simonenko, si batte con energia, nel Parlamento (Rada) e nel paese, sia contro i metodi autoritari e le pratiche di devastazione sociale, di corruzione dilagante e di collusione con le mafie regionali che caratterizzano il regime di Kuchma, che contro le ingerenze imperialiste e le forze che rappresentano più coerentemente gli interessi occidentali. Il KPU e’ infatti il partito che più preme per un’accelerazione dei processi di integrazione con la Russia e con gli altri paesi dello spazio postsovietico. Non è escluso che la consapevolezza della minaccia incombente di definitivo assoggettamento del paese all’egemonia americana possa indurre il partito, con l’approssimarsi delle elezioni presidenziali previste nel 2004, a ricercare una convergenza con i settori “filorussi” presenti nello schieramento centrista al governo. Ad esempio, potrebbe essere raccolta l’offerta fatta recentemente da settori dell’amministrazione presidenziale ai comunisti e ai socialisti di una riforma elettorale, con l’adozione del sistema proporzionale puro e la trasformazione dell’Ucraina in “repubblica parlamentare”. Tra le forze di sinistra c’è da annoverare anche il Partito Socialista di Ucraina (SPU) di Aleksandr Moroz, che, al momento della proclamazione dell’indipendenza aveva offerto copertura legale ai comunisti posti temporaneamente fuorilegge, e che, con il 6,9% dei voti, si proclama oggi “socialdemocratico”.