1. Non si può dire che gli ultimi mesi non siano stati istruttivi. Dal punto di vista internazionale, innanzi tutto, con il venire a termine del `miracolo’ americano e il sempre più incombente rischio di recessione negli Stati Uniti. Con l’addensarsi di nuove nubi, e addirittura il rischio di fallimento della disastrata economia giapponese. Con l’incapacità dell’Europa dell’euro di prendere la staffetta dell’economia americana come locomotiva dell’economia mondiale, o almeno di trovare al suo interno la sorgente di una domanda qualificata in grado di evitare di rimanere nuovamente intrappolata in un ristagno che, di fronte all’assenza di una risposta espansiva, non potrebbe non mettere a dura prova la tenuta di quel che resta del modello sociale europeo. Con il diffondersi, alla prima periferia del centro, dall’Argentina alla Turchia all’Est asiatico, di nuove tempeste che qualche autorevole commentatore ha letto come sintomo di febbre globale.
Ma è significativo e presagio di accelerazioni drammatiche – proprio sullo sfondo di questo contesto internazionale – anche ciò che sta avvenendo sul terreno nazionale: dove l’approssimarsi delle elezioni, le tornate contrattuali di categorie importanti (a partire dai metalmeccanici e dalla Fiat) e la recente assemblea di Confindustria vedono una convergenza tra padronato riunificato e centro-destra su un programma di sfondamento delle residue capacità di difesa di quel che resta di un sindacato autonomo, con una sinistra di governo sempre più sensibile alle sirene dell’avversario. A fronte di una destra padronale e politica che `pratica l’obiettivo’ sta la subalternità ideale e propositiva di un centro-sinistra capace soltanto di opporre una linea alternativa dai tratti appena delineati e tutto meno che limpidi (lasciamo stare l’attraenti), e per quel che se ne capisce di una povertà disarmante anche dal punto di vista intellettuale.
Su queste questioni è già intervenuto, nella seconda parte dell’editoriale del numero scorso, con considerazioni e accenti condivisibili, Lucio Magri. Vale la pena però di tornarci sopra, riprendendo e approfondendo e l’uno e l’altro piano dell’analisi.
2 La situazione dell’economia mondiale, in primo luogo. Per ragioni di spazio, concentriamoci sul centro dell’Impero, gli Stati Uniti, e su ciò che avviene nella `regione’ cosiddetta dell’economia globale in cui siamo immersi, l’Europa dell’euro. Qualche dato, in entrambi i casi, non guasterà.
Cominciamo dall’economia americana, dalle tendenze della borsa, e in particolare dal mercato delle azioni. Il Dow Jones, rappresentativo della `vecchia’ economia, è balzato in sù, tra la metà del 1982 e il gennaio del 2000, di 15 volte, da 777 a 11.772 punti; il Nasdaq, emblema che sembrava inattaccabile della `nuova’ economia, nello stesso periodo era stato catapultato verso l’alto, soprattutto per l’ascesa sempre più veloce del decennio appena concluso, di un fattore moltiplicativo ancora più incredibile, di 30 volte. Il rapporto prezzi-utili era anch’esso fuori da ogni media storica, risalito nel medesimo arco di anni da un valore di poco più di 7 a oltre 35. Insomma, l’investimento in teoria `di rischio’ pareva essere divenuto, strutturalmente, il meno rischioso e il più attraente di tutti. Il patrimonio delle famiglie è così aumentato costantemente, oltre il 14% nel solo 1999; mentre il rapporto tra ricchezza azionaria e reddito disponibile delle famiglie da 0,2% nel 1985 ha finito col toccare l’1,3% a fine 1999. I disavanzi commerciali e delle partite correnti sono – ulteriormente, e di conseguenza, in uno scenario di crescita relativamente debole altrove — aumentati nell’ultimo quadrimestre del 2000, raggiungendo il 4,3-4,5% del Pil. Nella recessione che di fatto è già in atto, se non vi saranno drastiche variazioni in riduzione del corso del dollaro, alcuni analisti prevedono addirittura che il buco con l’estero si avvicinerà alla soglia del 5%.
Non stupisce che su queste basi la già elevata propensione al consumo seguisse la linea ascendente volando dal 91% a oltre il 100%. E neppure che il boom dei consumi privati — peraltro inegualmente distribuito, dati i caratteri sperequati della crescita — fosse alimentato dal credito tratto su valori `virtuali’, finendo con il rappresentare ben i due terzi del Pil e dando vita a un indebitamento privato al di fuori di ogni esperienza storica conosciuta. Quel che è successo dopo è cronaca. Molta di questa ricchezza cartacea (più di 4.600 miliardi di dollari negli Stati Uniti, oltre 10.000 sulle piazze mondiali) è svanita nel nulla. Nel 2000 il Dow Jones ha avuto una flessione sino a cadere a 9.791 punti, perdendo quasi il 17% rispetto al suo picco. Il Nasdaq, che ha perso ben il 30% dall’inizio di quest’anno e si trova ora a 1.729 punti, è sprofondato del 66% dalla vetta raggiunta il 10 marzo del 2000, e secondo alcune voci potrebbe scivolare di un altro 15% dal livello attuale, toccando un pavimento a 1.500 punti; mentre a sua volta l’indice S&P è scivolato del 27% dal tetto raggiunto lo stesso mese dell’anno scorso. Il patrimonio e la ricchezza azionaria delle famiglie hanno iniziato una precipitosa marcia all’indietro, e il consumo interno ha cominciato a cedere. La capacità produttiva inutilizzata – che era rimasta elevata nonostante la vivace fase espansiva — si è ampliata ancora di più, e i profitti tanto attesi sono scomparsi ovunque, ma in modo particolarmente significativo nella `nuova’ economia, facendo anzi emergere vistose perdite. L’intera costruzione ha mostrato crepe sempre più evidenti, che hanno minato la fiducia, accentuando la correzione di borsa. Com’è naturale, il tasso di disoccupazione ha ripreso a crescere, per ora soltanto dal 4,2% al 4,3%: dato che copre peraltro ondate di licenziamenti durissimi nella vecchia come nella nuova economia. Questa volta, significativamente, la notizia non ha suscitato gli entusiasmi della borsa, incerta sulla reazione della banca centrale: fornendo così conferma ulteriore degli umori e delle aspettative sugli stessi sviluppi del capitalismo reale.
L’interpretazione apologetica che fantasticava di nuove tecnologie cui si sarebbe dovuto attribuire integralmente (e indipendentemente dalla prolungata espansione di fine anni ’90) l’accelerazione della dinamica della produttività, che ne deduceva andamenti mirabolanti degli utili delle imprese negli anni a venire, e che su questa base riteneva `realistiche’ le quotazioni di borsa e `sostenibile’ la voragine che si era aperta nella posizione debitoria sull’estero, ne esce fortemente rimessa in questione. Dimostra di essere né affrettata né ideologica la visione che invece sottolineava le contraddizioni della new economy, quella visione che ha trovato su queste colonne varie espressioni, cui si è aggiunto nel numero 14 (febbraio 2001) della «rivista del manifesto» il sostanzioso saggio di Brenner che, ci sembra, convalida la previsione di chi si attendeva il sopraggiungere di una `crisi’, ma che sottolinea al contempo come tale crisi non avrebbe assunto i caratteri di un crollo. Avrebbe semmai velocemente rimesso in moto l’intero quadro politico-economico, aprendo a esiti alternativi, di ripresa del conflitto e dell’iniziativa da un lato, di regressione sociale e di arretramento politico dall’altro.
L’interpretazione critica del miracolo americano ne metteva in evidenza il circolo, immediatamente benefico ma potenzialmente a lungo termine perverso, che legava: bolla speculativa; effetto ricchezza positivo (innanzi tutto sui consumi ma anche, in parte per via autonoma in parte di rimbalzo, sugli investimenti); l’avvitarsi dell’indebitamento privato; l’accumularsi del debito sull’estero; per ultimo ma non da ultimo, una piena occupazione spesso di discontinua e scarsa qualità, sempre precaria e incerta. E segnalava con forza: la natura in parte congiunturale e idiosincratica degli aumenti di produttività; l’integrazione del `decentramento’ nell’Est asiatico e in America Latina (che aveva finito con il determinare una pressione al ribasso su salari e condizioni di lavoro negli stessi Stati Uniti) dentro il ciclo produttivo dell’economia e della tecnologia dell’informazione americano; la bassa profittabilità presente e futura di buona parte delle imprese dell’economia basata su Internet, le mitizzate `dot.companies’. Tutti annunci di difficoltà serie ed imminenti. Una volta sopraggiunta la frenata, era ragionevole attendersi quel che sta avvenendo: che i dati sui profitti, la caduta dei valori dei titoli, la preoccupazione degli investitori avrebbero portato a una fuga dalle azioni verso le obbligazioni, alla frenata dei consumi, alla possibilità di razionamenti nel credito bancario, alla eventualità concreta del sopravvenire di un equilibrio prolungato di ristagno. In poche parole, il timore di un `atterraggio duro’ dell’economia americana che potrebbe tirarsi dietro il resto dell’economia mondiale: la quale, a sua volta, solo in forza della ripresa americana dell’ultimo decennio era stata in grado di sconfiggere le spinte stagnazionistiche che (per ragioni in parte diverse) originavano dal Giappone e dall’area dell’euro. E d’altro canto non era stato proprio il `miracolo’ Usa a consentire all’Est asiatico una nuova ma fragile vitalità dopo la crisi del `97-’98?
Per la verità, i rischi per l’economia mondiale di una impasse globale si sono addirittura ingigantiti nelle ultime settimane. Stati Uniti e Giappone, che da soli contano per il 46% della produzione mondiale, sono in simultanea tendenza negativa per la prima volta dal 1974, cioè dalla prima crisi petrolifera – il che lascia dubitare che i primi siano lieti di concedere ai secondi quella significativa svalutazione dello yen di cui avrebbero bisogno. L’Est asiatico, snodo decisivo della filiera dell’elettronica (non c’è nulla di più materiale dell’economia immateriale!), è di nuovo rigettato nella crisi dal crollo delle proprie esportazioni di materiali, componenti e prodotti di quel settore, visto che ben più della metà delle vendite all’estero di numerosi paesi di quell’area fanno capo alla information technology e dipendono crucialmente dalla domanda degli Stati Uniti. L’Argentina è stata strangolata, in sequenza, prima dalla dollarizzazione, poi dal repentino e drastico rialzo recente dei tassi d’interesse nelle aree periferiche a rischio di fallimento. E ovviamente paesi del genere sono tanto più `fragilizzati’ quanto più hanno avuto pieno corso le politiche di `stabilizzazione’ del Fondo monetario internazionale. Una storia non troppo dissimile si potrebbe raccontare per la Turchia.
Cosa ha scatenato la sequenza negativa, ed è possibile, e in quanta misura, porvi rimedio? Vi è chi, cogliendo soltanto una parte della verità, individua troppo facilmente la causa della svolta nella determinazione con cui Greenspan – passato con rapidità impressionante dal ruolo di `maestro’, eroe e responsabile unico del `miracolo’ americano, a quello di utile capro espiatorio su cui scaricare la colpa della recessione imminente — ha a più riprese, tra la metà del 1999 e i primi mesi del 2000, tentato di moderare l’ `esuberanza irrazionale’ della borsa americana, spingendo verso l’alto il tasso sui Federal Funds dal 4,75% (dove si collocavano dopo il salvataggio dell’ottobre 1998) al 6,5%, dove sono rimasti sino al gennaio di quest’anno. Quello che è certo è che l’inversione di rotta, segnata da tre riduzioni di mezzo punto negli ultimi tre mesi, non è bastata, e in contrasto con le attese e l’esperienza recente non è ancora riuscita a sconfiggere l’ondata ribassista. Non è detto che abbiano ragione coloro che imputano la mancata efficacia di questa manovra a una sua eccessiva timidezza, anche se è vero che il tasso di interesse `reale’ rimane al rispettabile livello del 2% e che dunque spazi per la riduzione ve ne sono. La stessa analisi di Brenner, ci pare, conferma la tesi degli scettici che alla resa dei conti il doppio debito sull’interno e sull’estero si sarebbe rivelato insostenibile, e che non si possa contare semplicemente sulla manovra monetaria. D’altronde, l’insufficienza, da sola, di una riduzione dei tassi d’interesse è dovuta anche al fatto che la natura espansiva o meno delle condizioni finanziarie dipende in modo determinante da due fattori che nella congiuntura presente giocano in senso negativo, e cioè l’andamento (al ribasso) dei corsi dei titoli e la (insospettata) tenuta del dollaro. Se va bene, l’intervento della Federal Reserve eviterà, durante il rallentamento economico, l’insolvenza di un sistema largamente indebitato. Nulla di più, almeno a breve.
L’articolo di Brenner è di grande utilità, si deve dire, per due gruppi di tesi che lo caratterizzano in modo originale, l’uno — a mio parere — in positivo, l’altro in negativo. Ha ragione Brenner quando chiarisce come la crescita americana sia stata accompagnata da un progetto politico esplicito e determinato che mirava a sostituire in corsa il traino della domanda, passando dai consumi finanziati col debito ad esportazioni nette positive, tirate da una crescita mondiale che doveva vedere altre aree aggiungersi all’intonazione espansiva degli Stati Uniti. Come ha ancora ragione nel rilevare che, per quanto alla fine sovradeterminata speculativamente e presumibilmente sopravvalutata, la crescita del prodotto e della produttività negli Usa degli anni ’90, a fronte del deludente andamento di Europa e Giappone, era stata effettiva e non può essere passata sotto silenzio: e concretamente ha dato vita a una ripresa di egemonia anche sul terreno del capitale reale, non sappiamo quanto duratura. Ciò che invece non convince è questo. Non si capisce come Brenner possa immaginare una ripresa mondiale coordinata che si appoggi sulla pura spinta di una maggiore concorrenza tra le aree capitalistiche e che dovrebbe estrinsecarsi in una più approfondita divisione del lavoro. Detto altrimenti, se la crescita americana e, con difficoltà e al seguito, quella europea sostenute dal boom dei consumi finanziati dal debito privato, una crescita mondiale non sostenuta dai consumi richiede a sua volta, pare inevitabile, l’espansione di qualche altra forma di domanda autonoma, che non può essere costituita per l’economia `globale’ dalle esportazioni nette. Ma su ciò l’analisi di Brenner tace.
Giocano qui negativamente, con molta probabilità, un qualche antikeynesismo volgare abbastanza diffuso (e che fa interpretare a molti come `keynesiane’ le politiche del Giappone, il che è dubbio: ma non possiamo trattarne qui) e un tipico errore smithiano (secondo cui tanto la crisi quanto lo sviluppo del capitale dipenderebbero dalla concorrenza, che come è noto da sola non spiega nulla). E in effetti, a veder bene, gli Stati Uniti hanno – o per essere più precisi, avrebbero: e non è detto che non la percorrano a loro modo – una via d’uscita, o per meglio dire un mezzo per attutire il rallentamento dell’economia. Si tratta del ricorso alla politica fiscale, tanto più in una situazione di vistoso avanzo nel bilancio pubblico. Da questo punto di vista aveva ragione più Bush che non i suoi critici pseudo-keynesiani i quali insistevano puramente sul rilassamento della politica monetaria. Semplicemente, e questo non può stupire nessuno, la spesa pubblica che Bush sta spingendo è quella del complesso militare-industriale a lui più vicino e non certo quella necessaria per un rilancio qualificato del welfare; mentre le progettate riduzioni fiscali (peraltro radicalmente insufficienti nella quantità e, per come sono disegnate, lente nella loro traduzione in nuova domanda) non favoriscono i ceti più esclusi dalla ripresa dell’accumulazione degli anni scorsi e più a rischio nella recessione attuale.
A ben vedere, negli anni ’90 la stagnazione dei salari e l’allargamento della forbice distributiva non hanno prodotto negli Usa una classica crisi da insufficienza di domanda in forza di una dinamica sostenuta ma, come si è poi potuto constatare, `a termine’, in quanto sostenuta unicamente da c onsumi di carattere `opulento’. Che una simile compensazione delle tendenze recessive inevitabilmente inscritte in una divaricazione nella distribuzione del reddito, che privilegia le fasce alte, e i consumi privati vistosi, avesse dei limiti doveva essere chiaro, almeno per chi non abbia dimenticato la lezione di Marx e della Luxemburg, prima ancora che di Kalecki e di Keynes.
3 Veniamo allora al quadro di ciò che sta avvenendo e ci si attende in Europa. Tra gli eventi inattesi, ne possiamo indicare due a mo’ di preludio al ragionamento. Il primo riguarda la speranza che con convinzione i circoli dominanti hanno proclamato e diffuso nell’ultimo paio d’anni. L’Europa dell’euro, si diceva nelle dichiarazioni e nelle previsioni delle sue massime autorità monetarie e politiche, se non è pronta a prendere il posto degli Stati Uniti come locomotiva della crescita, è almeno già sin d’ora in grado di accelerare la corsa e di sorpassare un’economia americana in perdita di velocità. A smentita, si è dovuto in questo inizio d’anno rivedere in fretta e furia le troppo ottimistiche stime di crescita, e facendo buon viso a cattivo gioco far finta di inorgoglirsi per tassi di sviluppo del Pil che si situeranno largamente al di sotto del 3%, secondo stime recentissime del FMI non superando il 2,5%. Un valore che può essere definito soddisfacente soltanto in forza della sostanziale immobilità degli anni `90.
Il secondo riguarda invece la delusione dell’aspettativa che era comune a osservatori di diverso orientamento teorico e politico secondo la quale un blocco troppo brusco della crescita statunitense avrebbe dato vita ad una caduta (che molti preconizzavano precipitosa) del dollaro, ad una risalita (che i critici temevano troppo veloce e instabile) del tasso di cambio dell’euro, e ad una precipitosa inversione della direzione dei movimenti di capitale. Quel che invece pare verificarsi è che proprio nel momento di maggiore ansia per gli Stati Uniti la loro moneta mostra ancora una solidità invidiabile: tant’è che l’euro è tornato nelle settimane scorse quasi ai suoi minimi, attorno a 0,88 per un dollaro, avendo cumulato una perdita in due anni del 25%. Si badi, ciò avviene esattamente nel momento in cui due fattori cui anche osservatori di sinistra avevano attribuito le ragioni di una peggiore performance delle economie dell’area dell’euro si sono andati dissolvendo: in primo luogo, l’aumento del prezzo del petrolio, che è in buona parte rientrato e non sembra attualmente e nel prossimo futuro dare segni di tensione; ma anche, e soprattutto, il differenziale nei tassi d’interesse a breve tra Europa e Stati Uniti, che è sceso dall’1,75% di alcuni mesi fa allo 0,25% di oggi, e che rischia di scomparire del tutto se le attese dei mercati americani di imminenti ulteriori riduzioni del tasso sui Federal Funds e i timori di quelli europei di una persistente riottosità della Banca centrale europea all’abbassare il tasso d’interesse troveranno conferma. Per quel che riguarda i tassi a lunga, lo scarto tra quelli europei e quelli americani oramai non esiste più. E se la Bce riducesse di un quarto di punto il tasso di riferimento dopo che ho scritto queste note, non cambierebbe granché. Come negli Stati Uniti, anche una (pur opportuna) politica monetaria espansiva non è da sola sufficiente a riqualificare lo sviluppo: a questo fine sono essenziali una politica fiscale orientata al pieno impiego e una più sostenuta dinamica dei salari e dei redditi da lavoro.
Ciò che in questo quadro sembra richiedere risposta è l’interrogativo su quali siano le ragioni per cui le borse europee hanno avuto nell’ultimo anno un andamento ancora più catastrofico di quelle statunitensi, e su cosa spieghi il fatto che i movimenti di capitale persistono a muoversi verso gli Stati Uniti. Può essere utile anche qui fornire qualche cifra. La sopravvalutazione del rapporto prezzi/utili e la crescita dell’indice S&P sono stati più marcati nel `vecchio’ continente. Per esempio, in Germania la borsa si è rivalutata del 268% e in Italia del 245% rispetto al 233% degli Usa; mentre il saggio di profitto `scontato’ sul futuro per le imprese della `nuova’ economia era in Europa del 19% a fronte del 14% americano. Il crollo dal picco di marzo 2000 a un anno dopo è stato, a sua volta, più pronunciato in Europa (-35% in Germania, -30% in Italia) che oltre Atlantico (-27%). Se prendiamo i movimenti di capitale tra Europa e Stati Uniti a gennaio, nel bel mezzo della tormenta in quest’ultima economia, gli investimenti diretti all’estero continuavano a muoversi in senso sfavorevole all’area dell’euro, per acquisti di azioni e obbligazioni americane da parte di europei o vendite di azioni e obbligazioni in euro da parte di non residenti, per un totale di 45,5 miliardi di euro.
Certo, a produrre questi esiti contribuiscono non poco la ancora stentata crescita europea, la riconfermata ossessione anti-inflazionistica della Bce (ma forse ancor più la volontà di non dare segnali accomodanti ai rinnovi contrattuali) che la induce a non ridurre i tassi, i timori che si stanno diffondendo per il rischio di hard landing negli Usa, tutti fattori di cui si è detto. Come anche ci devono ancora convincere quei commentatori del manifesto che ancora pochi mesi fa hanno interpretato, troppo unilateralmente e troppo affrettatamente, come armi politiche Usa l’alto prezzo del petrolio e il basso valore dell’euro (via differenziale nei tassi) — entrambe circostanze che non è detto fossero da intendersi come cattive notizie, in verità. Quello che è chiaro è che ora che il prezzo del petrolio sembra stabilizzarsi sui 24 dollari al barile e che l’impatto negativo dell’ultima impennata si è rivelato meno traumatico del previsto, ora che lo scarto tra tassi Usa e tassi europei è svanito, e ora che l’euro continua la sua magra esistenza pur con il competitore principale che arranca, emergono alla luce alcune verità. Il fatto che l’economia europea patisce della crisi americana non direttamente (come vorrebbe una visione sbrigativa della globalizzazione: cioè in rapporto alle difficoltà degli scambi commerciali), ma attraverso altri due canali ben più significativi. Il primo è la sincronizzazione delle dinamiche di borsa, frutto della liberalizzazione (politicamente decisa, e ancora oggi politicamente favorita) dei movimenti di capitale, ulteriormente accelerata dalla costruzione (politicamente voluta) di un capitalismo dei fondi pensione europeo – altro elemento, sia detto tra parentesi, che favorisce gli Usa più e meno immediatamente. Il secondo è lo stato dei rapporti commerciali con l’estero delle grandi imprese multinazionali europee (quasi tutte ormai non italiane), che loro sì sono fortemente sensibili al crollo delle vendite sul mercato americano, e le cui perdite trascinano dietro di sé e rallentano il resto del sistema. Che poi i venti di crisi finanziaria alla periferia colpiscano paesi dove a essere esposto non è il sistema finanziario statunitense ma quello europeo, e in specie quello tedesco, evidentemente rinforza il movimento del dollaro.
Insomma, il nodo europeo torna ad essere, per un verso, l’incapacità di sfidare una visione della globalizzazione finanziaria di marca anglosassone, e per l’altro verso la insistita dipendenza dal modello germanico di crescita tramite esportazioni nette del nucleo manifatturiero e dei servizi avanzati. Modello che si è esteso al resto della costruzione europea (e al nostro paese), e che fragilizza anche un’economia in teoria relativamente `chiusa’ come l’area dell’euro, sicché quando le esportazioni nette franano non si vuole o non si è in grado di produrre domanda autonoma all”interno. Salvo per così dire, per caso, che è poi quanto anticipa qualche istituto di previsione, che conta sul fatto che la caduta dei prezzi del petrolio, la riduzione delle imposte decisa dai governi per redistribuire le maggiori entrate degli anni scorsi, e magari l’attesa ripresa dell’euro, consentano una più rapida dinamica dei consumi privati. Ma è evidente che in questo caso non soltanto ci troveremmo a dover sperare in qualcosa che ci salvi dal ristagno senza che ciò sia prodotto da quell’iniziativa politica espansiva determinata di cui ci è bisogno: ma saremmo, come siamo, nelle condizioni di doverci accontentare di una stentata sopravvivenza che non può che riconfermare anche noi, e non soltanto gli Stati Uniti, in quel modello di crescita disegualitario che si fonda sulla domanda estera e/o sulla dinamica sperequata dei consumi, e che non può non rivelarsi per sua natura fragile e dipendente.
4 L’analisi che precede parla in realtà anche dell’Italia, e consente di comprendere il significato delle prese di posizione di Confindustria. L’esperienza italiana recente è stata segnata da alcune caratteristiche degne di nota. Mettiamone in evidenza alcune. La crescita, pur insufficiente, si è risollevata, raggiungendo a prezzi costanti il 2,9% (che va paragonato, per essere chiari, non soltanto al 5% Usa, ma anche al 3,2% della Francia e al 3,1% della Germania). Un passo che in ogni caso — per quanto si è detto sul prevedibile andamento prossimo venturo dell’economia mondiale ed europea, e per quanto si dirà sul caso italiano — difficilmente verrà mantenuto per pura forza d’inerzia. A fronte di ciò, due fatti significativi.
Primo, l’occupazione complessiva cresce nuovamente dalla metà degli anni `90. Interrompendo una tendenza alla riduzione che aveva caratterizzato i primi anni di quel decennio — e che si era tradotta in una acritica accettazione, persino nell’area della sinistra alternativa e antagonista, della tesi della `fine del lavoro’ — i lavoratori occupati erano risaliti da poco meno di 20 milioni, (il pavimento raggiunto nel gennaio 1995 secondo la rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istat) a 21.273.000 unità del gennaio 2001. A un esito del genere ha contribuito non poco la circostanza che, impiegando un termine tecnico, `l’elasticità dell’occupazione al reddito’ (ovvero, la misura percentuale della `risposta’ dell’occupazione all’incremento del reddito) è aumentata. Il tasso medio annuo di crescita delle unità di lavoro tra il 1995 e il 1999 è tornato ai livelli degli anni ottanta (0,7 per cento), pur in un contesto di crescita lenta (pari all’1,4% tra il 1996 e il 1999, gli anni del rientro nello Sme e dell’adesione all’euro successivi alla svalutazione della lira); e nel 2000, con il quasi raddoppio della crescita del Pil, il ritmo delle nuove assunzioni è persino accelerato. Il che è evidentemente spiegabile, oltre che come correzione di un eccesso di sostituzione di capitale a lavoro verificatosi nei primi anni ’90, in vari modi: tra cui, per un verso, la stessa moderazione salariale, e per l’altro l’accumulo temporaneo di forza lavoro in una fase di ristrutturazione aziendale di cui non si sfruttano appieno e immediatamente i risultati.
Come si sa pure, e lo ha documentato molto bene recentemente Vittorio Rieser (cfr. il dattiloscritto Appunti su mutamenti (oggettivi e soggettivi) nella struttura/composizione di classe in Italia, che commenta il rapporto Istat 2000, e che spero sia pubblicato presto su queste colonne), che il lavoro dipendente è in aumento mentre il lavoro autonomo è in lieve calo. Dato che va letto specificandone la composizione. Perché aumentano le nuove forme di lavoro autonomo, che mascherano in realtà lavoro eterodiretto (parasubordinati, collaboratori coordinati e quantitativi, soci-lavoratori di cooperative, etc.), mentre si riducono le figure tradizionali. E perché il lavoro dell’industria cala, e ancor più quello della grande impresa: ma soltanto perché gran parte delle funzioni prima svolte all’interno vengono ora esternalizzate, oppure si mascherano come occupazioni del terziario. Cresce a dismisura l’area della precarietà e dell’insicurezza. Lavoro `atipico’, regolato da contratti a tempo determinato (che nel 1999 avevano raggiunto il 9,5% del totale dei dipendenti), come contratti a termine, contratti interinali, contratti di formazione-lavoro, fino a coinvolgere più di un milione e mezzo di donne e uomini. Oppure lavoro a tempo indeterminato sì, ma `part-time’ (per l’8,2% del complessivo). Spesso e volentieri, vero e proprio lavoro `nero’ e `sommerso’. Quando aumenta l’impiego a tempo indeterminato, ciò avviene prevalentemente in imprese piccole e piccolissime, quindi esentate dall’applicazione dello Statuto dei lavoratori.
Insomma, mentre persino il lavoro più o meno esplicitamente `operaio’ ha ricominciato ad espandersi, sia pure di poco, notevole è stata la dilatazione dell’area del lavoro comunque `dipendente’ dal capitale. A ciò si accompagna una retribuzione reale sempre più compressa. Non soltanto i lavoratori non godono per nulla dei rilevanti aumenti nella intensità e nella forza produttiva del lavoro di questi anni, ma non sono neanche in grado di recuperare l’inflazione effettiva che è stata decisamente superiore all’inflazione programmata. Non stupisce perciò che, secondo dati della Banca d’Italia, dal 1980 al 1999 la quota dei salari sul reddito lordo distribuito si sia ridotta dal 56% al 40%, e che in particolare negli ultimi dieci anni, la quota dei profitti e delle rendite si sia gonfiata di oltre il 6%, senza che ciò possa essere attribuito in alcuna misura ad una particolare dinamicità del sistema delle imprese (e, come vedremo, lo riconosce di fatto lo stesso padronato). Nello stesso arco di tempo, le retribuzioni nette mensili sono diminuite dell’8,7%, e i lavoratori a bassa retribuzione sono aumentati del 10%. I dati diffusi dall’Eurostat in questi giorni sulla dinamica dei salari nell’ultimo trimestre del 2000 vedono l’Italia all’ultimo posto: e questo risultato dipende non poco dal fatto che in particolare i salari dell’industria da noi crescono soltanto dello 0,6% l’anno (in media, dal 1993), a fronte di aumenti di cinque-otto volte superiori in Germania, Gran Bretagna e Francia (cfr. l’articolo di Nicola Cacace su «l’Unità» del 13 aprile 2001). Queste circostanze, assieme alla torsione restrittiva che ha avuto la nostra politica fiscale (persino in eccesso rispetto a quanto ci è imposto in sede comunitaria), spiegano come mai i consumi italiani siano cresciuti relativamente di meno che negli altri paesi europei. Sono questi tutti frutti avvelenati della politica di `concertazione’ e degli accordi del 1992 e 1993.
Dov’è allora la novità di oggi? Sta nel fatto che nel 2000 a un sia pur modesto salto verso l’alto della crescita ha corrisposto per la prima volta da anni una inversione della gerarchia di importanza tra assunzioni a tempo determinato e assunzioni a tempo indeterminato, con le seconde che tornano a prevalere. L’ultima rilevazione campionaria dell’Istat sulle forze di lavoro, infatti, dice che non è più vero che pressoché tutto l’incremento dell’occupazione dipendente è dovuto alle forme di lavoro `atipico’. Rispetto al gennaio dell’anno precedente, il lavoro a tempo indeterminato è cresciuto di 498.000 unità, di cui 370.000 a tempo pieno e 128.000 a tempo parziale, mentre il lavoro a tempo determinato ha avuto un gonfiamento più modesto, da 1.403.000 a 1.442.000 unità, restando al 9,4% dell’insieme di occupati. Nella stessa industria l’incremento dell’occupazione è stato significativo (di 76.000 lavoratori, e dell’1,5 %) ma ancora più rapido si è mostrato quello nei servizi, di 479.000 unità e del 3,7 in percentuale. Una dinamica, certo, che ovunque investe in primo luogo e soprattutto le donne, che continuano a occupare posti di lavoro meno qualificati e garantiti. E che ha una interessante dimensione territoriale, con una espansione più marcata del Nord-Ovest e Centro, ma anche del Mezzogiorno, rispetto al Nord-Est, sostanzialmente stazionario.
Il che evidentemente apre al commento `di destra’ secondo cui la flessibilità, stimolando la dinamica del prodotto, se in prima battuta richiede forme di lavoro non garantite e/o a tempo parziale, anche per soddisfare le `preferenze’ dell’offerta di lavoro e in particolare di giovani e donne, prima o poi, con lo `spontaneo’ consolidarsi della crescita, darebbe luogo ad occupazione `vera’ e `tutelata’. Mentre è chiaro che così non è, che ciò è dovuto in parte considerevole alla presenza di quella normativa contrattuale che appunto Confindustria e Polo delle libertà (e speriamo soltanto loro: ma i presagi non sono incoraggianti) vogliono stravolgere, passando dalla `concertazione’ al ripudio del patto sociale di cui si è sfruttato ciò che si poteva: normativa che costringe, volenti o nolenti, una volta che il reddito si riprende, a regolarizzare le scorte di lavoro temporaneo e atipico. Come è evidente che l’alta reattività dell’occupazione al reddito, per cui la prima inizia a crescere a tassi di aumento del secondo relativemente ridotti, è fenomeno tipico di quel capitalismo `postfordista’ a crescita bassa e volatile in cui siamo immersi. Si può star certi che se la domanda e la produzione si collocassero stabilmente su un sentiero di crescita sostenuta — in forza di un sostegno deciso e permanente a livelli alti e stabili di occupazione garantita e di attività, come fu nell’epoca `fordista’ — la forza produttiva del lavoro accelererebbe, e l’elasticità dell’occupazione rispetto al reddito retrocederebbe (per una conferma empiricamente ricca e statisticamente documentata basta andarsi a riguardare l’ancora attuale rapporto dell’ILO sull’occupazione mondiale nel 1996-97, National Policies in a Global Contect).
Il secondo fatto significativo è questo: l’eccesso dell’inflazione interna su quella dell’area europea in condizioni di moneta unica, e perciò l’inesorabile perdita di competitività che si sta determinando, iniziano a produrre i loro effetti. Tant’è che pure in un anno in cui le importazioni sono aumentate dell’8,3% e le esportazioni della bellezza del 10,2% rispetto al Pil la bilancia commerciale è tornata a un saldo appena positivo di poco più di 25.000 miliardi, dopo che nel triennio preecedente si era aperto un buco nei conti con l’estero che si era divorato l’attivo accumulato negli anni della svalutazione, e che per il solo 1996 era ancora di più di 70.000 miliardi. A cosa questo preluda in un momento in cui il commercio mondiale si sta sgonfiando, e rapidamente, ognuno lo può immaginare da sé. Tanto più che la quota dovuta ad importazioni delle recenti variazioni positive del reddito si è mantenuta a livelli elevati, mentre le imprese italiane si sono mostrate sempre più in difficoltà nel difendere il mercato interno, e sempre meno abili nel penetrare sui mercati esteri. Basti segnalare che con il commercio mondiale che negli ultimi cinque anni è cresciuto del 30%, e con le esportazioni europee che sfruttavano i nuovi spazi salendo del 34%, le esportazioni italiane si sono limitate ad aumentare del 20%: il che si è tradotto in una quota sui mercati mondiali che è declinata dal 4,2% al 3,4%, mentre sui mercati europei la quota è scesa dal 15% al 13%.
In questo scenario, il buon andamento degli investimenti in capitale fisso, che dopo anni di sostanziale stallo sono finalmente cresciuti del 6,1%, va interpretato come segno di una innovazione per lo più reattiva e adattiva ai caratteri distorsivi della nuova crescita dipendente dall’estero e dalla sperequazione distributiva. Conta anche, senz’altro, la necessità italiana (ma più in generale europea) di recuperare sul terreno dell’economia della conoscenza, e di applicare trasversalmente le tecnologie dell’informazione nella produzione, nel trasporto, nell’intermediazione e nel consumo, promuovendo una drastica riorganizzazione non soltanto tecnica ma anche organizzativa. Ma da noi – non sembri stravagante – una ripresa degli investimenti fissi è in fondo necessitata anche per l’elevato grado di utilizzo della capacità produttiva del periodo più recente, dovuto esattamente alla carenza di accumulazione di capitale fisico degli anni e dei decenni trascorsi.
E’ questo l’ambiente in cui Confindustria cala il suo proclama alle assise di Parma. Visto che già l’abbiamo fatta troppo lunga, limitiamoci a pochi punti di quel programma. D’Amato propone di prendere la qualità competitiva nel quadro globale come `parametro di confronto’ per orientare e valutare la politica economica, e di accettare di buon grado come `vincolo’ il Patto di stabilità europeo, entrambi assunti come dati esogeni e immodificabili: il che, com’è ovvio, automaticamente fa delle scelte politiche una variabile dipendente dalla dinamica presunta `naturale’ dell’economia. Si riconoscono pienamente i limiti e le debolezze del sistema produttivo e delle aziende italiane, il loro essere troppo piccole e ancora eccessivamente `familiari’, la loro marcata propensione a nascondersi nel sommerso, la scarsa spesa per ricerca e sviluppo, la ridotta innovazione di prodotto. Soltanto che i responsabili sono presto, e convenzionalmente, individuati da D’Amato nei `soliti sospetti’, lo Stato spendaccione e il lavoro troppo rigido.
Emergono qui le due ossessioni di Confindustria, la `flessibilità’ e il contenimento dei salari, da un lato, la riduzione delle imposte sulle imprese e il taglio della spesa sociale con il consueto corollario delle privatizzazioni e della riforma delle pensioni, dall’altro. Sulla efficacia nel medio/lungo periodo della flessibilità nel determinare aumenti di occupazione si può dubitare. Come è stato dimostrato in alcuni lavori più e meno recenti, in Italia la flessibilità del lavoro è spesso a livelli comparabili se non superiori a quella degli Stati Uniti, e l’occupazione comunque cresce più velocemente proprio nelle aree dove maggiori sono salario e garanzie; e in ogni caso l’influsso della flessibilità sembra incidere più (negativamente) sulle caratteristiche e la composizione dell’occupazione che non (positivamente) sul suo livello. Rimane la questione su cui si accanisce il dibattito politico e sindacale quotidiano, quella sulla libertà di licenziamento, la famigerata flessibilità `all’uscita’. Ma attenzione. La divisione tra chi è favorevole e chi è contrario alla libertà di licenziamento cela l’essenziale. In realtà ciò che Confindustria vuole, e che l’iniziativa padronale sui contratti e gli accordi più o meno sottobanco con Cisl e Uil rivelano anche ai ciechi, è non soltanto mano libera sull’uso della forza-lavoro (ne abbiamo molteplici esempi in questi giorni seguendo la contrattazione nazionale e aziendale dei metalmeccanici) ma anche liberalizzazione selvaggia dei contratti a termine. Si tratta, a ben vedere, della cancellazione dello stesso concetto di lavoro a tempo indeterminato e della ripresa delle grandi linee di una legge che nella legislatura che si è appena chiusa per poco non passò — con l’accordo, per di più, di parte significativa della maggioranza (e dei Ds). A questo punto, francamente, non si vede che bisogno ci sarebbe di flessibilità del lavoro `in uscita’.
Per quel che riguarda l’attacco allo Stato, si capisce bene come l’istituzione di un `capitalismo di fondi pensione’, che tanti entusiasmi sembra suscitare nello stesso centro-sinistra, individualizzi e frammenti ancora di più la società, e come inibisca ulteriormente un controllo sull’economia da parte di una politica nazionale che si voglia attenta agli interessi del lavoro. E per quel che riguarda privatizzazione e qualità innovativa del sistema, è un po’ singolare non rendersi conto che almeno una delle ragioni della superiorità di Usa, Germania, Francia nell’innovazione e nella tecnologia, e quindi del nostro ritardo, è data esattamente dal forte indirizzo pubblico che lì è ancora presente, mentre da noi è stato smantellato in nome della supposta superiore efficienza del mercato.
Ma non è solo ideologia il discorso di Confindustria. E’ vero che `se’ si assumono le tendenze globali e la politica europea come presupposti immodificabili, allora c’è poco da fare, l’attacco al lavoro è l’unico modo per recuperare competitività, perché si è fatto in modo che quello sia l’unico fattore immobile e l’unico margine su cui raschiare sul terreno impositivo, retributivo, produttivo. E però un futuro che ci riserva meno domanda dall’estero e, nella migliore delle ipotesi, più consumi privati, è un futuro dove, lungi dal procedere verso una autentica modernizzazione, il paese si adagierebbe in una struttura squilibrata tanto sul terreno produttivo quanto su quello dei consumi, priva ad un tempo di autonomia tecnologica e di quei consumi collettivi che caratterizzano un paese civile. E non sarebbe un caso, perché da noi l’innovazione, quando c’è stata, non è mai stata separata da una iniziativa pubblica e, ancor più, dalla presenza di un conflitto sociale, che ora si vuole sterilizzare. Ciò che Confindustria, di fatto, pretende è che ci si radichi definitivamente in una economia intrappolata dai bassi salari e privata dello strumento dell’intervento pubblico. Qualcosa che non si è sinora trasformato in povertà diffusa ma soltanto in diseguaglianza crescente per la presenza di `cuscinetti’ e `ammortizzatori’ sociali come la famiglia, il fondo di ricchezza accumulata, la funzione redistributiva (talora dai tratti parassitari) dello Stato.
Ma quel `se’ è importante. Il discorso svolto nelle prime sezioni di questo scritto chiarisce come né il contesto internazionale (tanto più in tempi di difficoltà generalizzate) né quello europeo (specie quando il tanto atteso ritorno dello sviluppo è a rischio) possono essere ritenuti qualcosa su cui non si possa (e non si debba) agire. Se però non è pura ideologia, il discorso di Confindustria è qualcosa di peggio. Prelude infatti a una seconda metà del 2001 in cui, sull’onda di una crisi `oggettiva’ e di un risultato elettorale che premi i cantori delle magnifiche sorti e progressive della concorrenza e del mercato, si possa smontare quel poco di garanzie per i cittadini e per i lavoratori che erano residuati. Qualcosa che, mutatis mutandis, è già successo (se qualcuno si ricorda ancora del 1980). E che segnerebbe un arrretramento non soltanto per le condizioni del lavoro ma anche per quelle dell’economia italiana tutta. Prendiamo, di nuovo, soltanto il discorso sulla `flessibilità’. Lo smantellamento della garanzie legislative sul lavoro e l’attacco al sindacato (o, per dire la verità, alla Cgil, e in particolare alla Fiom), non può non produrre effetti perversi sulla qualità dello sviluppo italiano, tanto più se si tiene conto come un eccesso di rotazione dei lavoratori, la bassa qualificazione e formazione della manodopera, la disaffezione del lavoro vivo, la stessa sua ancora più ridotta conflittualità, finirebbero con il ritorcersi contro la competitività delle nostre imprese e la capacità di innovazione del sistema.
Su una cosa, peraltro, D’Amato ha senz’altro ragione. L’economia e la società italiane, sia pure con caratteri e modalità differenti nelle sue diverse articolazioni territoriali, sono ovunque caratterizzate dalla disoccupazione, o da una occupazione inadeguata. Cos’altro vuol dire, infatti, un `tasso di occupazione’ (cioè la percentuale delle forze di lavoro che trova occupazione) che in Italia si situa sul 54% (dato di gennaio 2001, più elevato dell’1,7% rispetto a un anno prima) contro il 62% dell’Europa o il 75% degli Stati Uniti (dati del 2000)? O che il `tasso di partecipazione’ (cioè la quota della popolazione in età lavorativa che fa parte delle forze di lavoro o come occupati o come persone che cercano `attivamente’ lavoro) è soltanto di poco più elevato, è cioè del 60,1% nel gennaio 2001 (mentre era del 59,1% nel gennaio 2000)? Tanto per prendere il caso più controverso, e che più facilmente potrebbe essere impiegato per contrastare questa nostra affermazione, lo stesso Nord-Est, dove si dice ci sia la piena occupazione e dove saremmo in un area dal benessere europeo (e in una certa misura ciò è senz’altro vero), non siamo forse in una situazione dove il tasso di partecipazione femminile è sotto la media europea di almeno dieci punti, e il pieno impiego si concentra sui maschi `maturi’, mentre il tasso di disoccupazione femminile è più del doppio di quello maschile? E non è forse vero che in quest’area sovente mitizzata i giovani abbandonano gli studi per lavorare, o se li proseguono troveranno un posto non corrispondente alla loro capacità? E, ancora, non è proprio qui che buona parte dei lavoratori, per mantenere un livello di vita decoroso, devono poter contare su case ereditate dai genitori e/o sui salari del coniuge o dei figli?
5 Una sinistra degna di questo nome dovrebbe opporre il primato dell’obiettivo di una piena occupazione `di qualità’, fuori dal mito del libero mercato ma anche da quello di uno Stato che si dovrebbe ridurre a mero regolatore. Dovrebbe sostenere le ragioni di una lotta alla diseguaglianza e a favore della difesa e dell’estensione di uno Stato sociale universalista, invece di inseguire l’individualismo e inneggiare allo Stato `leggero’. Dovrebbe impugnare la bandiera di una ricomposizione unitaria dei soggetti dentro e fuori il mondo del lavoro, piuttosto che gestirne in prima persona la frammentazione e la precarizzazione. Dovrebbe ripresentare a voce spiegata la questione salariale come corollario di una politica di diverso sviluppo, non separandola dalla riconversione ecologicamente compatibile dell’apparato produttivo. Dovrebbe, più in generale e fondamentalmente, rimettere sul tappeto la questione dell’indirizzo strutturale dell’accumulazione e della struttura economica: dovrebbe ambire, dunque, a riprendere la sfida sul `come’ e `cosa’ produrre. E dentro questo quadro potrebbe — dandogli un senso più compiuto e condivisibile, oltre che uno sbocco più realistico – riprendere con maggiore forza il discorso sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, sulla distribuzione di un reddito incondizionato al cittadino in quanto tale, su una ripresa di controllo sulla qualità della vita.
Si tratterebbe, certo, di una sinistra che vede ancora nel lavoro il centro della propria identità e della propria azione (anche se non vi si esaurisce), e che pensa possibile oltre che desiderabile una sua liberazione. E si tratterebbe di una sinistra che considera lo Stato qualcosa che non è destinato per sua maledizione all’improduttività e all’inefficienza, ma che potrebbe e dovrebbe esser fatto funzionare, e servire, diversamente. Non se ne vedono molte in giro, ed è comunque su questo che siamo chiamati a giudicare i loro programmi.