Se l’uragano Katrina sarà ricordato come l’evento che procurò a George Bush un pugno allo stomaco da cui solo parzialmente ha saputo sollevarsi, la giornata del 6 marzo sarà ricordata come quella in cui questo presidente ha ricevuto una scarica micidiale, capace di dare al termine «anatra zoppa» – usato per tutte le amministrazioni che avviandosi alla fine del loro mandato diventano sempre più irrilevanti – un significato più pregnante che mai. La parabola discendente di questa amministrazione, infatti, non è dovuta solo alla circostanza che sta per abbandonare il suo potere ma anche – soprattutto – al modo in cui sta per abbandonarlo: screditata, derisa, senza più un minimo di credibilità e per di più con la paura di cosa mai possa combinare ancora. Nel giro di poche ore, l’altro ieri, è stato come se i vari palazzi della Washington «imperiale» si fossero trasformati tutti insieme in nidi di mitragliatrici e avessero concentrato i loro colpi contro l’edificio più potente del mondo.
Nel palazzo di giustizia – distanza dalla Casa bianca: 500 metri – si è concluso con il verdetto di colpevolezza il processo contro Lewis «Scooter» Libby, che nell’interpretazione generale sul banco degli imputati c’era finito solo per salvare il suo capo, il vicepresidente Dick Cheney; al Campidoglio – distanza: 600 metri – alcuni magistrati fatti fuori dal fido servitore di Bush, il ministro della giustizia Alberto Gonzales, hanno testimoniato davanti alla commissione giustizia del Senato sulle richieste di aggiustamento di processi per corruzione che hanno ricevuto (e respinto, per questo sono stati licenziati) e alle intimidazioni che hanno ignorato; all’ospedale Walter Reed (distanza dalla Casa bianca: due chilometri) continuava lo scandalo dei soldati feriti in Iraq e Afghanistan e lasciati nell’incuria, nella sporcizia e nell’indifferenza; mentre al Veteran Department, cioè l’istituzione che si occupa dei reduci di guerra (distanza: 500 metri), lo stesso Bush parlava ad alcune centinaia di reduci riempiendosi come al solito la bocca della parola «eroi». Un giochetto che finora aveva funzionato ma che questa volta ha registrato una novità non da poco: le sue parole sono cadute in un pesante, surreale silenzio. Oltre tutto, quasi una ciliegina sulla torta, quest’anno non ci sarà la tradizionale festa dei parà di Fort Bragg. Troppi morti – è stata la spiegazione – e troppi turni svolti in Iraq.
Sul fatto che «Libby ha perso la battaglia legale e Cheney ha perso la battaglia politica» sono d’accordo perfino i suoi sparuti sostenitori (consolandosi col fatto che «però non ha perso la fiducia del presidente», e infatti ieri Bush glie l’ha confermata) e tutti aspettano gli sviluppi della denuncia presentata direttamente contro di lui da Joseph Wilson, la vittima delle soffiate che Cheney ha orchestrato e Libby prodotto. Sulla storia dei magistrati cacciati (otto tutti insieme, non era mai accaduto nella storia) non si sa bene come andare avanti ma il Senato sta studiando la faccenda. Sull’ospedale, invece, Bush si è trovato in pratica a smentire se stesso, nel senso che per indagare sulle disfuzioni ha dato un incarico bipartisan, cosa per lui del tutto inusitata, nominanando una democratica (Donna Shalala, ex ministro della previdenza sociale con Bill Clinton) e un repubblicano moderato come Bob Dole, ex capo dei senatori del suo partito e ex candidato alla presidenza nel 1996. Conscio, almeno un po’, della sua debolezza? Sarebbe la novità più clamorosa.