Scala mobile, il segno di un nuovo modello economico

Ormai è un dato di fatto acquisito: i nostri salari hanno drammaticamente perso potere d’acquisto. Le retribuzioni da lavoro dipendente, sistematicamente erose nel corso degli anni dall’inflazione, stanno lì a dimostrarlo. Questi problemi non sono storia recente: la principale causa di questa caduta è stata l’abolizione della scala mobile e la sua sostituzione con una politica di rinnovi contrattuali ancorata ai valori di una inflazione programmata mai rispettata.
Nel nostro paese la definizione “politica dei redditi” non ha mai avuto il suo naturale significato: crescita regolata di tutti i tipi di reddito, distribuzione della ricchezza prodotta e regolazione del rapporto tra
profitti e salari. A partire dal luglio 1993 ha prevalso invece una
generica equivalenza tra “politica dei redditi” e moderazione salariale. Dal ’93 ad oggi, il rapporto salariale è regolato su due livelli: la difesa del salario reale (recupero dell’inflazione) è divenuto compito esclusivo della contrattazione nazionale di categoria; tutto il recupero salariale degli aumenti di produttività è demandato alla sola contrattazione decentrata, riguardante però una minoranza di aziende e di occupati. I salari sono, nella media, compressi sotto il livello dell’inflazione calcolato annualmente dall’Istat per effetto del perverso meccanismo dell’inflazione programmata. A conferma di cio’ possiamo portare l’esempio della nostra categoria, il pubblico impiego. Mediamente, in termini reali, le retribuzioni lorde nella pubblica amministrazione sono cadute del 2,9% nel 1992, del 2,7% nel 1993 e del 2,2% nel 1994. In cifre, è come se da una retribuzione media riferita ad un pubblico dipendente fossero scomparsi circa 500 Euro all’anno per quattro anni di seguito. Da questa caduta, generata anche dal blocco dei rinnovi contrattuali, la nostra categoria non si è più ripresa.

I risultati di una ricerca che, come delegati, abbiamo condotto, in modo empirico, sui nostri salari dimostrano che un operaio statale del comparto Ministeri inquadrato al quarto livello ha perso, rispetto all’inflazione ufficiale calcolata dall’Istat, lo 0,5% nel 1993, il 3, 7% nel 1994, il 2,5% nel 1995, il 2,4% nel 1996. Il recupero, invece, è stato timidissimo: il 2,2% nel 1997 e il 1,5% nel 1998. Il’ Gap’ negativo accumulato dai nostri salari non è stato mai colmato, nemmeno con i recenti rinnovi contrattuali.

Da qui la prima considerazione generale: con il primo governo di centrosinistra, conclusa la fase del “sacrifichiamoci tutti” (che poi
proprio tutti non erano) per entrare nella moneta unica, governo partiti e sindacati erano ad un bivio. Difendere un modello “europeo” dei salari e dei rapporti di lavoro, oppure andare ad una deregulation all’americana. Noi pensiamo sia ora di smentire una specie di pensiero unico che tante vittime ha mietuto anche a sinistra: gli aumenti salariali non generano inflazione, non compromettono l’occupazione, non ledono la competitività delle imprese, non frenano l’economia. Piuttosto è vero il contrario. Perché si genera inflazione quando si distribuisce più di quanto si produce; si compromette l’occupazione quando si rinuncia ad una politica di riduzione degli orari di lavoro e quando il prolungamento della giornata lavorativa diventa il solo modo di procacciarsi un salario decente; si lede la competitività delle imprese quando queste sono spinte a competere solamente sul costo del lavoro dimenticando innovazione, ricerca e formazione; si rallenta l’economia quando la scarsa capacità di spesa delle famiglie frena la domanda interna; si diventa salarialisti quando la preoccupazione per una retribuzione che non basta più fa dimenticare la difesa dei diritti e delle condizioni di lavoro.

*Delegati RSU Polo di Mantenimento Pesante Nord- Piacenza