Sassuolo-Ferrara, pestaggi “autorizzati” nell’era della guerra permanente

Mattina di domenica 19 febbraio, Sassuolo, provincia di Modena.
Un ragazzo marocchino è a terra, seminudo, immobilizzato. Contro di lui si accaniscono con pugni e calci due carabinieri, un terzo assiste. A qualche metro di distanza un testimone riprende con la videocamera del proprio telefono cellulare la scena, rendendo possibili le reazioni, le prese di posizione, i commenti.
Seguiranno gli accertamenti e le indagini, che ci auguriamo possano fare piena luce sull’accaduto. Rimane tuttavia il senso di sconcerto guardando quelle immagini di violenza ingiustificata.
A maggior ragione se a quelle sequenze affianchiamo il ricordo dei tanti episodi analoghi, come quello di Ferrara dello scorso settembre, in cui il giovane Federico Aldrovandi trovò la morte in circostanze ancora oscure.
Muovendo da queste drammatiche constatazioni ci poniamo un interrogativo: cosa ha questo episodio di violenza in comune con gli innumerevoli pestaggi di neri e ispanici da parte delle forze dell’ordine statunitensi?
Molto, troppo. L’unica differenza è che, in questo caso, non si è ancora scatenata la rivolta del quartiere, in una città in cui pochi mesi fa l’amministrazione espropriò con la forza un intero palazzo abitato da lavoratori immigrati, e l’aggressione non è sfociata in linciaggio.
Ma come non vedere che il clima è il medesimo e che il razzismo e la caccia allo straniero sono i primi “effetti collaterali” di una guerra permanente che ha superato da tempo i confini dei conflitti militari?
L’odio nei confronti di ciò che è percepito come diverso, la militarizzazione delle relazioni sociali, la presunzione dell’onnipotenza dei poteri: tutto ciò è diretta conseguenza della guerra.
Non sorprende, purtroppo, nemmeno il secondo elemento che qui vogliamo mettere in luce: la reazione della città, una raccolta di firme di solidarietà nei confronti dei carabinieri certamente sostenuta e coordinata da forze politiche xenofobe ma che raccoglie consensi trasversali.
Una sete di ritorsione e vendetta che sceglie rabbiosamente di affidarsi all’arbitrio delle forze dell’ordine e, in ultima istanza, ad un sistema autoritario di reazione e repressione.
E’ una chiamata alle armi che intreccia ossessione sicuritaria e crociata identitaria.
Quel “marocchino di merda” urlato dal carabiniere mentre pesta i piedi sulla schiena del ragazzo è la traduzione comprensibile del manifesto di Marcello Pera, il frutto avvelenato del clima di guerra nel quale, ogni giorno di più, rimaniamo imprigionati.