Stavolta i francesi hanno tracciato da soli il proprio futuro. Sono andati a votare in 36 milioni (84% di affluenza, la più alta dal 1965) per scacciare via gli spettri del 21 aprile 2002 e riconciliarsi in primo luogo con se stessi. Hanno votato come non mai le città, le “banlieues”, le campagne, i territori d’oltremare. Hanno votato i giovani e i pensionati, le classi popolari e il ceto medio, il Paese “profondo” dei teritori rurali e quello globalizzato della new economy. La lunga fuga dalla politica, la cappa di apatia e livore che infestava il Paese, sembra dunque diradarsi nelle urne repubblicane di domenica come in un rito liberatorio: «Alla fine di una campagna appassionante, la Francia ha mostrato al mondo il suo più bel volto, un’imagine civica e serena, un’espressione democratica sicura di sé che ha portato chiarezza estinguendo il ciclo lepenista e riavvicinando tutta una nazione alla vicenda politica» scriveva ieri Le Monde .
Il dato in fondo più confortante è che la partecipazione alle urne e la taglia del Front National sono grandezze inversamente proporzionali: più sale l’affluenza, più scendono le percentuali dell’estrema destra, a dimostrazione che la fortuna frontista si è nutrita fin qui di antipolitica, di indifferenza sociale, di frustrazione muta. E’ senz’altro prematuro speculare sul «tracollo» di Jean Marie Le Pen che è stato comunque scelto da quasi quattro milioni di francesi, (nove volte più del partito comunista). Il quadro politico post 22 parile autorizza però un cauto ottimismo per l’avvenire. Non è un caso che la sfida del 6 maggio verà giocata sulla schema classico delle democrazie di massa: destra contro sinistra. Il voto utile ha ricompattato gli schieramenti più grandi, semplificando il paesaggio politico e dando un taglio netto delle ali estreme. Con una novità: il moderato François Bayrou. Non è riuscito ad approdare al ballottaggio ma con il 18% ha acquisito un peso specifico notevole vincendo la sua scommessa personale.
Osservatori ed esperti giurano che sarà lui l’ago della bilancia, il vero arbitro del secondo turno. Bayrou viene dalla destra liberale ma se ne vuole affrancare e guarda a sinistra. Il suo progetto a lungo termine assomiglia è una versione transalpina del Partito democratico, ma al di là di quel che deciderà nei prossimi giorni, lui guarda già alle legislative del 10 e 17 giugno, primo banco di prova della sua strategia centrista.
Nella “nuova” campagna presidenziale che si apre tra i due turni, Sarkozy parte ovviamente in vantaggio. Con il 31% dei voti il campione della nuova destra conferma la forza carismatica della sua candidatura, dà corpo alla sua offensiva fatta di rotture e valori identitari, giustifica con le cifre il suo spericolato gioco d’attacco, la seduzione quasi sconcia dell’elettorato lepenista. I numeri del primo turno gli hanno dato ragione. Sarko ha infatti drenato tutto il bacino storico della “droite” gollista al quale ha aggiunto milioni di consensi nei bastioni tradizionali dell’estrema destra. Il risultato di Marsiglia illustra meglio di ogni altra analisi questa tendenza cannibale. Nella seconda città di Francia, una delle roccaforti del Front National (primo partito dall’88), Sarko schizza infatti al 38% e il Fn precipita dal 23 al 13%: il travaso è eclatante. Un altro aspetto correlato allo sfondamento a destra è la conquista del voto popolare bianco: tantissimi sono i consensi che Sarkozy ha racimolato tra gli abitanti dei “quartieri difficili”, ad alta densità di immigrazione, nei distretti post-industriali afflitti dalla mancanza di lavoro, nei ghetti urbani dove sono più alti racket e criminalità. Ma anche nei bacini operai del Nord Pas de Calais, un tempo terreno d’elezione delle sinistre.
Se il successo di Sarko in fondo non poteva stupire un circo mediatico che da mesi gli tira la volata, in molti sono rimasti sorpresi dal risultato di Ségolène Royal, l’altra vincitrice del primo turno. La candidata socialista con quasi il 26% dei voti riporta il Ps alla sua dimensione storica eguagliando lo “score” di Mitterand nell’81 Ha recuperato dieci punti dal disastro “jospiniano” del 2002, è riuscita a fermare l’emorragia di voti tra classi popolari e ha consolidato quelli del ceto medio e impiegatizio delle grandi città. Una base consistente per un precedente confortevole. Certo, la strada è dannatamente in salita. Sommando i voti di tutti i suoi candidati la “gauche” non va infatti oltre il 37%. Ma il secondo turno di una presidenziale non è somma algebrica. E’ uno scontro tra due personalità e tra due universi politici e simbolici distinti. Lo è prima di tutto in forma intuitiva, al di là dei programi dei candidati che spesso tra i due turni tendono a rincorrersi al centro. La sfida Ségo-Sarko ha in tal senso il merito della chiarezza, non costringe gli elettori a piroette idologiche, a contraddittori equilibrismi nell’urna (il 57% ha già votato per loro al primo turno). Royal, che ha incassato le consegne di voto della “gauche radicale”, cercherà di convincere i tanti elettori spaventati dallo stile virulento di Sarkozy. Gli spiegherà che il suo progetto socialista è più giusto e più equilibrato, che lei, “la” Presidente, sarà capace di riunire i francesi senza le fratture, i duelli al sole, le immagini truculente continuamente evocate dal rivale. Con questa chiave ha già stravinto le “primarie antisarkoziste”, imponendosi come l’unica alternativa al progetto «brutale» dell’ex ministro dell’Interno, alla Francia propietaria che si affida «alla potenza del denaro», alla «logica dei clan», «al controllo del’informazione», alla «soppressione delle libertà civili». Il discorso pronunciato domenica sera nella scuola elementare di Melle qualche ora dopo il passaggio del turno è, in questo senso, tagliato interamente sul campionario di paure e inquietudini che suscita Sarko ai francesi. Gli orizzonti securitari, la tolleranza zero, l’influenza sui grandi media, l’affarismo economico, l’atlantismo in politica estera. Il “tutto tranne Sarkozy” non è solo uno slogan coniato dai suoi avversari, ma un sentimento vivo nel Paese, la variabile impazzita che potrebbe fra saltare il banco repubblicano. Si possono dire molte cose sul programma di Royal, confuso e contraddittorio in molti passaggi. Il problema è che l’esercizio del 6 maggio richiede altro. E soprattutto nessuno a sinistra ha i titoli per farlo
Alla “gauche” di Ségolène infatti quasi tutti camminano sulle proprie macerie. Il voto utile ha trovato un terreno fertile nelle divisioni tra i candidati dell’area radicale mai scesa cosi’ in basso negli ultimi 15 anni: nessuno di loro supera la soglia del 2% tranne Olivier Besancenot con il 4,3%. Il giovane postino della Lcr raccoglie i frutti di una campagna eletorale riuscita. A differenza dei suoi concorrenti, Besancenot si è ritagliato uno spazio mediatico d’eccezione, facendosi apprezzare dai francesi per il piglio combattivo ma sempre rispettoso, competente sui dossier, a suo agio nelle tribune politiche, intransigente sui principi. Dietro di lui il vuoto. José Bové non supera l’1,3, i verdi si fermano all’1,5, la trotzkista Laguiller all’1,4, il lambertsita Schivardi allo 0,4. Chi paga il prezzo più alto però è il Pcf, che con l’1,8% è vicino alla soglia dell’autosparizione. Il cantiere francese sembra ancora più urgente di quello italiano.