Eric Hobsbawm, con una espressione felice, lo ha definito il «secolo breve». Breve il Novecento lo è stato perché la sua nascita e la sua morte sarebbero coincise con l’inizio e la fine degli Stati originati dalla Rivoluzione d’Ottobre, quindi, grosso modo, con l’arco di anni tra il 1917 e il 1989. Dietro questa suddivisione temporale si nasconderebbe tuttavia un’interpretazione più profonda. Il ‘900 nascerebbe e perirebbe insieme a un’idea forte di politica. La sua vita, la sua durata, i suoi destini sarebbero stati vincolati – direbbero i detrattori del secolo scorso – al perdurare delle illusioni della modernità, al delirio di onnipotenza della ragione, al sogno prometeico di trasformare la società ed emancipare il genere umano dallo sfruttamento. Qui starebbe il motivo per cui, a dispetto della breve vita, la memoria lasciata dal Novecento non accenni a finire, sia pure intesa dai suoi critici di oggi come un modello negativo di ciò che la politica contemporanea non dovrebbe fare o essere. E questo è tanto vero che la modernità che ai nostri tempi si suppone “buona”, non trova altro modo di definirsi all’infuori del prefisso post-. Gli intellettuali contemporanei hanno fatto largo uso di espressioni simili: post-moderno, post-ideologico, post-comunista, post-novecentesco e via all’infinito. In ognuna di queste etichette l’imputato numero uno è ovviamente il “pensiero forte” – in una parola, le grandi narrazioni moderne, la tradizione filosofica che va dall’Illuminismo al marxismo. Attaccare la memoria del Novecento ha significato per gli apologeti della globalizzazione capitalistica decretare, una volta per tutte, sconfitto, perdente e illusorio qualsiasi progetto di trasformare la società attraverso le leve della politica. Dopo aver gettato nella spazzatura della storia il pensiero forte, schiere di intellettuali sono state sedotte dalle sirene del pensiero debole, dal relativismo inconcludente delle idee, da una razionalità priva di fondamenti veritativi, senza alcuna efficacia dinanzi all’orizzonte ultimo e definitivo del mercato, questo sì ritenuto dai suoi apologeti come l’unica istanza “forte” in grado di dare sostanza alla realtà. Eppure oggi, alla vista degli effetti disastrosi e regressivi di questa visione del mondo (l’ideologia, ancora una volta), se ne inizia a intravedere la crisi. Ma l’esito di questa crisi si gioca anche sul terreno della memoria e dell’eredità del Novecento. Questo pare lo sfondo ideale sul quale si stagliano le riflessioni di Edoardo Sanguineti raccolte nel suo ultimo libro, Novecento. Conversazioni sulla cultura del ventesimo secolo (edizioni il melangolo, pp. 128, euro 16,00). Dall’ideologia alla guerra, dalla musica alla filosofia, dal cinema alla televisione, l’autore ripercorre in ventiquattro interviste (rilasciate a Giuliano Galletta per un’emittente genovese) gli snodi e le forme culturali del ‘900. Parlare del secolo scorso significa anzitutto parlare della questione dell’ideologia, ritenuta nel senso comune il male specifico del ventesimo secolo – o, detto altrimenti, della collocazione dell’intellettuale, della sua funzione nella società capitalistica di massa. In un certo senso, sostiene Sanguineti, ogni ideologia è una «falsa coscienza», dato che rispetto all’ideale della verità assoluta, «qualsiasi rispecchiamento che, attraverso il pensiero, noi tentiamo di elaborare è pur sempre un accomodamento, una mediazione di fronte alla complessità di un reale che è inesauribile». Il Novecento – ma qui c’è l’eco dell’insegnamento gramsciano – ha introdotto una funzione pratico-sociale dell’ideologia, ha mostrato il conflitto tra le idee, lo scontro tra classi sociali impegnate ognuna a organizzare un proprio sistema di valori, «un codice di convinzioni, credenze, comportamenti». Chiamarla “visione del mondo” non basta, l’ideologia novecentesca ha racchiuso in sé la «dimensione pratica», il «fare», lo scenario storico dello scontro tra borghesia e proletariato. Proprio quella “pesantezza” delle idee che il postmodernismo ha trasformato nella «pubblicità», nell’artificio della «seduzione», nella «persuasione occulta» in cui le idee stesse sono vendute come prodotti. Ma è nel giudizio estremo, senza appelli, sulla morte definitiva dell’ideologia che si nasconde il paradosso. Sanguineti si annovera «tra coloro che pensano che la fine delle ideologie sia una formula ideologica, una formula di seduzione», nata «per combattere, e per accompagnare la caduta del socialismo reale, che era l’oggetto ideologico negativo nella cultura del mondo capitalistico-borghese; per cui dire le ideologie sono finite voleva dire, in sostanza, è morta l’ideologia marxista». Alla fine, detto con rozzo cinismo, il proletariato, i lavoratori, sono stati «disarmati della coscienza di classe», mentre i Berlusconi sanno benissimo a quale classe appartengano. Per continuare con le formule paradossali, «gli unici a rimanere marxisti sono stati i capitalisti». Loro sì, hanno imparato la lezione marxiana, l’hanno fatta propria, «lasciando disarmato il fronte avverso».