Samir Amin è stato ospite della Festa di Liberazione di Milano. L’intervista che vi proponiamo è stata fatta per un grande giornale italiano che poi ha preferito non pubblicarla. Ve la proponiamo.
Il governo dell’Autorità Palestinese guidato da Hamas è sempre più isolato. Cosa dovrebbe fare la comunità internazionale per favorire la ripresa del dialogo tra Israeliani e Palestinesi?
Gli accordi di Oslo lasciavano pensare che in Palestina fosse possibile una pace definitiva. Disgraziatamente Israele non ha rinunciato alle sue ambizioni di espansione coloniale con conseguente pulizia etnica e annullamento dei diritti del popolo palestinese; dopo che Rabin aveva violato quegli accordi, Sharon ne ha ufficializzato l’abbandono. La soluzione del problema non passa attraverso l’esercizio di pressioni sulla vittima e il rifiuto di cooperare con l’autorità palestinese eletta – anche quando si tratti di Hamas – ma attraverso le pressioni sull’aggressore. L’appoggio praticamente incondizionato degli Usa e quindi dell’Europa alla politica espansionistica di Israele è all’origine dell’impasse in cui ci troviamo.
E’ notizia di questi giorni l’intensificazione della crisi nucleare iraniana. Teme di più il riarmo di Teheran o la possibilità di un intervento armato preventivo americano?
Non si vede perché l’Iran -come ogni altro paese – non dovrebbe avere il diritto di accedere al nucleare. La “non proliferazione” degli armamenti nucleari è accettabile solo se viene imposto a tutti nello stesso modo. La crisi in corso è evidentemente pericolosa, Washington non ha rinunciato al suo progetto di controllo militare del “grande medio oriente” petrolifero.
Cosa pensa della posizione dell’Europa?
Fino al 1945 ogni potenza europea ha avuto una propria politica mediterranea, il più delle volte in conflitto l’una con l’altra. Dopo la II guerra mondiale gli Stati dell’Europa occidentale non hanno praticamente più avuto alcuna politica mediterranea e araba, né comune né specifica. La costruzione europea non ha sostituito al ritiro delle potenze coloniali una politica comune operante in questo settore. Ricordiamo tutti che quando in seguito alla guerra arabo-israeliana del 1973 ci fu un aggiustamento dei prezzi del petrolio, l’Europa comunitaria, sorpresa nel sonno più profondo, scoperse che anch’essa aveva degli “interessi” nella regione. Ma quel risveglio non ha suscitato alcuna iniziativa importante, per esempio sul problema palestinese.
Quali sono, secondo lei, gli interessi strategici americani nell’area?
Questo per tre fattori: l’accesso al petrolio relativamente a buon mercato è vitale per l’economia della triade; e la maniera migliore per garantirsi questo accesso consiste naturalmente nell’assicurarsi il controllo politico della regione. Ma la regione ha anche una grande importanza per la sua posizione geografica, al centro del mondo antico, e insediandosi là gli Stati Uniti riusciranno a rendere vassalla l’Europa, che ne dipende per le forniture energetiche, e a tenere la Russia, la Cina e l’India sotto un ricatto permanente, rafforzato da minacce di intervento militare, se necessario. Gli sforzi dispiegati con continuità e costanza da Washington fin dal 1945 per assicurarsi il controllo della regione ed escluderne inglesi e francesi – non erano stati finora coronati dal successo, per la semplice ragione che il progetto del populismo nazionalista arabo (e iraniano) entrava clamorosamente in conflitto con gli obiettivi di tale egemonia. Ma quel momento è passato e i poteri nazionalisti sono sprofondati in dittature prive di ogni programma. Il vuoto creatosi con questa deriva ha aperto la strada all’Islam politico e agli autocrati oscurantisti del Golfo, che sono gli alleati preferenziali di Washington.
Di fronte alle iniziative degli Stati Uniti, riesce a immaginare un’alternativa per l’Europa?
Dieci anni fa Washington aveva preso l’iniziativa di avanzare il progetto di un “mercato comune del Medio Oriente”, in cui i paesi del Golfo avrebbero fornito il capitale, gli altri paesi arabi la manodopera a buon mercato, riservando a Israele il controllo tecnologico e le funzioni di intermediario obbligato. I paesi del Golfo e l’Egitto lo avevano accettato, ma il progetto si scontrava con il rifiuto di Siria, Iraq e Iran. Per andare avanti bisognava abbattere quei tre regimi. La cosa è stata fatta per l’Iraq. A questo punto la questione è di sapere che tipo di regime politico si deve instaurare per sostenere il progetto. La rinnovata alleanza con un Islam politico cosiddetto “moderato” (cioè capace di dominare la situazione con efficacia sufficiente a impedire le derive “terroristiche” – quelle dirette contro gli Stati Uniti e quelle sole, naturalmente) costituisce l’asse dell’opzione politica di Washington. In questa prospettiva sarà perseguita una riconciliazione con l’arcaica autocrazia del sistema saudita. Di fronte al progredire del progetto statunitense, gli europei hanno inventato un loro progetto, chiamato “partenariato euro-mediterraneo”. Un progetto assai poco ardito, con tante chiacchiere senza seguito, ma che si propone anch’esso di “riconciliare i paesi arabi con Israele”, escludendo i paesi del Golfo dal “dialogo euro-mediterraneo” gli stessi europei riconoscono implicitamente che la gestione di quei paesi resta di esclusiva pertinenza di Washington.