«Io ho sempre difeso e difendo anche oggi il diritto al dissenso, e non credo che i dissidenti siano “traditori” da cacciare». Vorrei rivolgere a Pietro Ingrao un pubblico ringraziamento per queste semplici parole, pronunciate nel corso di un’intervista apparsa giovedì sulla Stampa. In margine alla vicenda del voto parlamentare sull’Afghanistan si è manifestata una sindrome molto preoccupante, minacciosa per tutti, dove l’intolleranza nutre il sospetto e persino il disprezzo per chi dissente. Le parole di Ingrao segnano un confine sacro, che nessuno, per nessuna ragione, dovrebbe varcare.
Se su questo punto concordo con Ingrao, ho invece qualche obiezione per quanto riguarda il suo giudizio sul nostro voto contrario alle missioni, che Ingrao considera «un pesante errore politico». Perché avremmo sbagliato votando contro il rifinanziamento delle missioni in Afghanistan? Per due ragioni: avremmo isolato l’Afghanistan dal contesto internazionale («dall’Iraq a Israele al Libano, alla Palestina») che fa da sfondo a quella guerra. E avremmo rischiato di «affossare o anche ferire seriamente il governo di centrosinistra». Vorrei spiegare perché non credo che le cose stiano così.
Alla Camera i numeri sono tali da preservare il governo da qualsiasi effetto negativo in presenza di un dissenso circoscritto a pochi deputati. Ho l’impressione (in verità qualcosa di più di una semplice impressione) che in queste settimane si sia voluto creare ad arte (anche nel Paese) uno psicodramma volto a delegittimare una volta per tutte qualunque posizione discordante dalle decisioni della maggioranza e dell’esecutivo. Chiedo: dovrebbe la sinistra critica attenersi a un simile modello di relazioni? O la funzione delle forze di alternativa – che ritengo consista nel contrastare gli orientamenti moderati presenti nel centrosinistra per realizzare le parti più avanzate del Programma dell’Unione – non richiede la gelosa salvaguardia di adeguati margini di dissenso? Quanto al Senato, è ovvio che l’esiguità dello scarto tra maggioranza e minoranza (non certo addebitabile alla «irresponsabilità» di chicchessia) raccomanda cautela a chiunque abbia a cuore le sorti del governo. Ma appunto: a chiunque (governo compreso) e non soltanto a chi si oppone alle scelte dell’esecutivo, ritenendo di dar voce, col proprio dissenso, a istanze diffuse e a valori radicati nel «popolo della sinistra».
Quanto alla necessità di tenere presente l’intero scenario internazionale, come non essere d’accordo con Ingrao? Il punto è che proprio questa prospettiva di analisi ci ha spinto a votare contro il rifinanziamento delle missioni. La guerra in Afghanistan è, al pari di quella irachena, uno snodo chiave nella strategia americana di dominio sulle aree strategiche della «cintura del petrolio». Per questo, non per astratte opzioni ideologiche, si impone una cesura rispetto alla politica estera del centrodestra. Senonché sull’Afghanistan la scelta del governo conferma la linea della Casa delle libertà, che non per niente ha votato compatta con la maggioranza. Prova ne sia che il governo ha rifiutato di inserire nel ddl qualsiasi pur indeterminato riferimento a una exit strategy. Questo gli si chiedeva e ha detto di no, almeno sinora. Chiedo: dopo le esperienze dei governi ulivisti negli anni Novanta (Serbia, Kosovo, adesione al nuovo «concetto strategico» basato sulla trasformazione della Nato in una forza di aggressione) dovremmo operare un’apertura di credito nei confronti del governo (in attesa di eventuali futuri ripensamenti) o non abbiamo invece l’obbligo di giudicarlo in base ai fatti e alle decisioni concrete?
Queste mi paiono le questioni all’ordine del giorno. Non altre. Non, per esempio, le presunte smanie di visibilità che altri commentatori – non so su che base – ritengono di potere attribuire ai «dissidenti». Anche per questo sono personalmente grato a Pietro Ingrao: per avere posto questioni politiche, evitando di aggiungersi al pletorico coro dei sicofanti.