Salvador Puig Antich

Salvador Puig Antich, assassinato il 2 marzo 1974, era un giovane spagnolo di 26 anni; anarchico e libertario, quando, in Spagna, essere anarchici e libertari significava sfidare direttamente l’ultimo regime fascista europeo (con quello di Salazar in Portogallo), il franchismo. Puig Antich apparteneva al “Movimento Iberico di Liberazione”, sigla oggi ignota ai più, ma che, nella Spagna della dittatura, nei primi anni Settanta, si batteva per la libertà, la fine del dispotismo, l’autonomia delle province indipendentiste, quali la Catalogna e il Paese Basco. Non gruppi di terroristi, dunque, come oggi i media dipingono tutti e indistintamente gli autonomisti e gli anarchici (non solo in Spagna), ma semmai gruppi di generosi utopisti perseguitati da una spietata repressione, ispirata dalla più bieca delle falangi terroristiche occidentali.
Arrestato nel settembre 1973, con l’accusa di aver compiuto una rapina di autofinanziamento a mano armata al Banco Ispano-Americano a Barcellona, assaggiò sin dal primo istante, sulla sua pelle, la brutalità di un regime oppressivo e funesto: colpito ripetutamente dalla polizia, percosso con il calcio delle armi da fuoco di ordinanza, stramazzò al suolo privo di conoscenza. Quando rinvenne, al commissariato, dovette sentirsi attribuire anche l’imputazione di aver centrato, con un colpo d’arma da fuoco, all’atto della sua cattura, un commissario: un proiettile aveva infatti colpito quest’ultimo, ma mai nessuno poté dimostrare la colpevolezza del giovane, tanto più che mai fu autorizzata alcuna autopsia sul corpo del commissario, né mai fu effettuata alcuna perizia balistica.

Non servirono a nulla le obiezioni della difesa e l’indignazione della società civile democratica, comprese le accorate rimostranze della Chiesa cattolica: sebbene fossero inoltrate direttamente al caudillo, Francisco Franco, e a dispetto dell’autorità della mano che le aveva vergate, le richieste di grazia del cardinale di Barcellona, Narcisio Jubany, e di quello di Tarragona, José Point, furono ignorate e Puig Antich fu condannato a morte.

“Garrotato”, il 2 marzo 1974, trent’anni fa.

Non è forzato parlare di terrorismo di Stato: per il giovane anarchico, come per la stragrande maggioranza dei prigionieri politici del regime condannati a morte, la pena capitale consisteva nell’esecuzione a mezzo di garrota. Si tratta di un antico strumento di tortura, forse uno dei più crudeli ed efferati, consistente in una morsa di metallo che veniva stretta con una vite intorno al collo del condannato, provocandone così una lenta ed atroce morte, generalmente per soffocamento o per rottura delle vertebre cervicali.

Una notte di macabri rituali medievali e di cortigiana servile ferocia: questo il tratto distintivo del franchismo, che, per giunta, negli ultimi anni della sua vita (il regime cadde con la morte di Franco, nel novembre del 1975), dietro la maschera di una finta “liberalizzazione”, non solo non rinunciò al suo carattere spietatamente terroristico, ma anzi ripiegò in forme ancora più brutali di violenza, stretto tra l’opposizione popolare e il venir meno dell’appoggio di settori significativi delle gerarchie vaticane.

La lettura storico-politica dell’evento è piuttosto complessa. Alcuni considerarono l’esecuzione come il ‘biglietto da visita’ del nuovo capo del governo spagnolo, Arias Navarro, già capo della polizia e responsabile della nuova stretta repressiva; tanto più che dal 1963, anno dell’assassinio di Stato del militante comunista Julian Grimau, il regime non aveva più eseguito condanne capitali.

Ma covavano, dietro le quinte, ragioni più profonde e pulsioni inconfessate: in quello stesso frangente il regime sancì l’espulsione dalla Spagna del vescovo di Bilbao, Antonio Anoveras.

Per aver difeso il diritto all’autodeterminazione delle minoranze catalana e basca, infatti, il vescovo, appena due giorni dopo l’esecuzione di Puig Antich, fu attaccato pubblicamente da Franco in persona, che lo accusò di attentare all’unità della Spagna. Lo sdegno del Vaticano fu incontrovertibile: Paolo VI dichiarò, quella stessa domenica, di “avere nel cuore la pena di certe situazioni storiche”, si disse “costernato, perché l’uomo vive l’incubo di molte paure” e rivendicò l’urgenza di “sostituire alla vendetta e all’odio, la misericordia e l’amore”. (l’Unità, 4 marzo, 1974).

Il regime si avviava a perdere una della ragioni della sua stabilità: l’appoggio del clero.

Si erano aperti due fronti: allo sdegno delle gerarchie vaticane, il regime rispose con un attacco pubblico al clero basco e catalano; all’immediata reazione popolare (soprattutto giovanile) all’indomani dell’assassinio di Puig Antich, che aveva portato in piazza migliaia di persone il giorno stesso dell’esecuzione, fu opposta la repressione più cruenta e spietata. Risultato: centinaia di fermi e di feriti tra gli studenti e ben sei università occupate dalla polizia in assetto di guerra: da Madrid a Barcellona, passando per Granada, Saragozza e le basche S. Sebastian e Bilbao.

Il movimento anti-franchista affrontava un regime che menava i suoi colpi di coda; e lo affrontava unito, le piazze riempite dagli scioperi dei lavoratori e dalle manifestazioni di protesta degli studenti, il clero spaccato, con un’ala oltranzista e filo-franchista messa alle strette, specie dopo le ultime dure prese di posizione del Papa. Il movimento trovò allora una sua strada nell’unità delle forze popolari, forte della solidarietà della società civile democratica degli altri Paesi europei e unito nella consapevolezza che il regime, proprio perché agli ultimi atti della sua storia, ripiegava nel terrore e nell’arbitrio come estremi tentativi di riaffermazione del suo potere.

Una lezione di unità, non meno valida a trent’anni di distanza.

Nel breve volgere di un anno e mezzo, il regime del caudillo sarebbe crollato, sotto la spinta delle forze democratiche e rivoluzionarie e sotto il peso delle sue stesse contraddizioni, del mancato appoggio delle forze che ne avevano alimentato le radici, nonché del fallimento delle sue promesse di modernizzazione della Spagna. La morte di Puig Antich e di tanti altri militanti, anarchici e repubblicani, socialisti e comunisti, non passò invano, dunque, e conserva per noi, a trent’anni di distanza, un messaggio ancora carico di significati. Una lezione attuale e, pertanto, ancora più degna di rivivere nella nostra pratica politica: oggi 2 marzo, Radio 1138, nodo catalano della rete “Global Radio” (www. globalradio. it), promuoverà un’occupazione dello spazio radiofonico della regione di Barcellona, per rivendicare la piena libertà di espressione e fruizione degli spazi, contro ogni censura e repressione, ricordando Puig Antich e tutte le vittime del fascismo.

Il fascismo, infatti, non è un “accidente storico” e non viene espulso dal destino degli uomini con il semplice venir meno di un regime: si riaffaccia alla finestra della storia ad ogni passaggio critico del capitalismo, come misura estrema cui le classi dominanti fanno ricorso per consolidare il proprio potere, a volte ammantandosi di parvenze “legalitarie”.

Ecco perché l'”antifascismo” non è e non sarà mai un ferro vecchio della storia: in esso rinveniamo la premessa della democrazia e di qualunque speranza di progresso e di emancipazione delle masse popolari, in ogni parte del mondo.